Io e il tifo
Prima che il Covid 19 ci costringesse in casa e fuori dagli stadi, avevo messo giù alcuni pensieri che, in qualche modo, mi hanno sempre accompagnato, sia come agonista in tempi andati che da cronista in tempi successivi. Il mio non vuole essere il classico sguardo retorico sulla validità o meno di qualsivoglia pratica sportiva anche perché, in questo periodo, se ne è parlato troppo e con troppa confusione. È più che altro una riflessione, in prevalenza rivolta ad aspetti più sociologici, probabilmente generata dal travaso di dinamiche violente travestite da amor patrio a cui tutto il mondo dello sport ma soprattutto quello del calcio si è trovato coinvolto.
La passione verso la squadra del cuore, questo amore infinito e indefinibile che spesso sfocia in ingiustificabili duelli agonistici mi hanno costretto a pensare che del buon senso civico sportivo di una volta ne sia rimasto davvero poco. Questo è bene chiarirlo, mi amareggia molto. Attenzione, non voglio passare da “matusalemme”, assolutamente, voglio anzi comprenderne le ragioni, magari scoprirne la validità, il perché risulti essere meglio di una flebo di serotonina. Per capirlo bene bisognerebbe tornare indietro di secoli per scoprire che poi non siamo così diversi da quella plebe sfiancata dai problemi che ritornava a sorridere il giorno di festa quando al circo Massimo scendevano nell’arena i leoni e i gladiatori e a decidere il bello e il cattivo tempo erano i pollici in su o in giù. Storia docet!
L’attaccamento al colore, e non parlo di politica, regala un senso di appartenenza importante, ma c’è un limite che non va superato? e se esiste, qual’è la linea di demarcazione che una volta superata, non consente il rispetto delle qualità altrui, l’accettazione della sconfitta, la capacità di mantenere intatta l’obiettività sportiva che spesso impone una realtà di cui non siamo coscienti? Sono fenomeni da esplorare, magari scoprendo che molti degli input capaci di fomentare reazioni esplosive sono veicolate, per onore di cronaca, da pseudo onestà intellettuali che il più delle volte va a braccetto con l’audience piuttosto che aiutare a vedere la realtà come si dovrebbe.
Sono arrivata a questo, se ricordo bene, dopo aver assistito alla tavola rotonda di una nota trasmissione sportiva in cui quattro giornalisti discutevano di libertà di pensiero e di etica professionale. Per tutti la richiesta del moderatore era la la stessa: è giusto che un giornalista possa allinearsi con i suoi articoli alle sorti della squadra del cuore o è bene rimanerne completamente fuori, applicando il criterio secondo il quale è doverosa l’assoluta neutralità?
È lecito usare i social come riferimento per parlare di un evento o una particolare situazione accentuandone la validità o meno? Il tifo e i suoi eccessi possono essere istigati da una informazione eccessiva e tendenziosa? Quanto questi atteggiamenti possono influenzare? Insomma, quanto è importante il tifo sugli spalti? Qual è il suo reale significato e soprattutto incide solo sulla squadra o è socialmente necessario?
In tempo di coronavirus, le diatribe su come, dove, quando e perché si dovesse o non si dovesse consentire la ripresa del campionato ha riempito le pagine dei giornali, sono state scritte fiumi di parole in video, nelle trasmissioni, come se non ci fosse un domani e parlo di sopravvivenza sportiva chiaramente, il problema sono i milioni di euro persi dai proprietari dei grandi club, e questo non aiuta ad educare il buon tifoso, anzi fomenta il risentimento sportivo, quasi fosse stato depredato dal sacrosanto diritto di combattere ogni domenica verso qualcuno.
Su questi quesiti ci sarebbe da parlare per ore e, al di là delle risposte che gli onorabili giornalisti hanno poi rilasciato, ho pensato che da pensanti è giusto esprimere il proprio pensiero.
Personalmente ritengo che l’etica non nasce solo se controfirmata da un giuramento scritto, come la classica mano appoggiata sulla costituzione dove si presume che ogni scelta e ogni decisione futura sia in qualche modo legata al bene della comunità e non per favorire questioni personali. O ce l’hai o non la sentirai mai! L’etica fa parte di noi, o almeno dovrebbe, si percepisce, come un senso del dovere, in questo caso giornalistico, che va al di là dei meri giuramenti o qualsivoglia obbligo: è la neutralità del pensiero, quella particolare combinazione di elementi che permette al professionista di commentare senza perdere l’obiettività.
Lasciarsi andare e cadere nella tentazione di far pesare la bilancia dalla parte sbagliata può accadere anzi, diciamocela tutta, accade sempre più spesso, eppure una riflessione è d’obbligo. Condividi che qualunque sia il contesto, le parole hanno un peso e che soprattutto quelle scritte segnano con effetto immediato, con il rischio di passare informazioni che spesso si rivelano infondate perché partite da riflessioni personali e non date con il legittimo distacco. Il problema se prima aveva una rilevanza marginale, ora si è accentuato con la presenza ingombrante dei social.
Tutto è condiviso nel bene e nel male, e non è detto che il tifo multimediale sia migliore di quello sfegatato degli stadi, anzi. È il più dannoso, il più feroce perché subdolo, senza remore e pericoloso; il monitor si trasforma nell’alibi dietro al quale si scatenano le tifoserie più folli, le più inarrestabili e destabilizzanti. e probabilmente quelle innescano le micce più devastanti.
Eppure, l’altra faccia della medaglia, quella migliore, la più genuina, mi dice che anche nel “tifare” c’è qualcosa di buono, autentico, un profondo senso di riscatto di una identità individuale importante che si rinnova ogni domenica, l’appartenenza al colore, il legame con le origini. Il dodicesimo uomo in campo che avvolge in un unico grande abbraccio virtuale, rincuora, da la carica giusta, supporta e sostiene nei momenti difficili, una presenza tangibile di un incontrastato amore, forse l’unico incapace di tradire.
Sandro Bonvissuti, lo scrittore malato d’amore per la Roma
A spingermi a queste riflessioni anche l’incipit di uno scrittore originale, almeno questo è quello che è diventato dopo aver scoperto la sua vena letteraria: Sandro Bonvissuti è uno di quelli a cui la patente da tifoso è stata data ad honoris cause, il suo è l’amore incondizionato verso la sua città e la sua squadra, le due donne che ha amato di più e di cui non potrebbe fare a meno. Certo Roma è la Roma, lo capisco, come si fa a non amarla, così come comprendo il legame con ciò che in qualche modo la rappresenta, non solo le antichità da cui non si prescinde, della Roma ci si ammala d’amore. Lo ha scritto in La gioia fa parecchio rumore edito da Einaudi, ambientato negli anni ottanta; più che una biografia il libro è una testimonianza d’amore verso entrambe, lo definisce come un percorso di educazione sentimentale e di crescita personale.
ma di questo ti parlerò in futuro.
A presto caro iCrewer!
Che bella riflessione Dony. Piena e condivisibile a 360 gradi.