Caro Lettore nella nostra rubrica Sogni di carta ospitiamo Remo Capone, autore di Il Rettangolo azzurro, edito Elison Publishing che ho letto e recensito qui sul nostro sito.
Vista la particolarità di questo libro che, come ho scritto anche nella recensione, è caratterizzato da una scrittura particolarmente ricca di dettagli, avevo qualche curiosità da soddisfare, che ho potuto chiedere direttamente all’autore.
Ringrazio Remo Capone per la disponibilità nel rispondere alle mie domande e ti lascio all’intervista.
Chi è Remo Capone. Come le piace presentarsi?
Direi così – parafrasando un grande scrittore del passato: sono un “Uomo con molte qualità (forse anche troppe )“. Peraltro, senza saper bene se ne ho approfondito davvero qualcuna.
Sono stato – direi meglio, ho “assaporato“ – questi mestieri: ufficiale dell’aeronautica, doganiere, funzionario centrale dello Stato, traduttore, consulente legale, archeologo, fotografo, scrittore. Con qualche altra passioncella di carattere secondario, come ad esempio: pesca subacquea, organizzatore di trekking nella natura… ecc.
En passant, sto elaborando in questo momento la scaletta del mio prossimo libro, che avrà il seguente titolo e sottotitolo – provvisori e in consonanza con quanto sopra: A CAVALLO DI DUE MILLENNI – Memorie di un ottuagenario incerto (ovvero, un uomo con molte qualità). In cui mi avventuro alle calcagna del “bambino“ di cui al mio precedente libro, del quale Lei si è tanto cortesemente interessata, seguendolo nelle sue molteplici e variegate vicende da adulto.
Ho letto nella sua biografia che affianca alla scrittura la ricerca
fotografica, in che modo si legano queste sue due passioni?
Mi è stato detto una volta che le mie storie scritte avevano lo stesso tipo di “composizione” delle mie fotografie; nel senso che anche in esse vi era la stessa concentrata attenzione alla disposizione degli elementi visivi nella cornice della sequenza narrata, come mi accade con le immagini nella cornice delle mie fotografie.
E credo che sia un’osservazione giusta: se Lei ricorda, nel prologo al mio libro Il Rettangolo Azzurro, il mio primo contatto con il mondo esterno al grande utero allargato e protetto della casa patriarcale, è proprio descritto come un contatto di squisito carattere visivo: il Rettangolo Azzurro, questo lacerto azzurro che mi seguirà per tutta la vita nel ricordo e che probabilmente ha condizionato il mio modo di dispormi e verso la scrittura e verso la fotografia.
Riguardo a Il rettangolo azzurro, come è nata l’idea di ripercorrere la sua storia e quella della Roma degli anni precedenti la seconda guerra mondiale, rituffandosi nel passato e rivestendo gli abiti di sé stesso bambino in quegli anni?
Devo dire che questo desiderio e intenzione credo di essermeli portati dietro per molto tempo. Perlomeno, ritengo, da quando ho raggiunto un certo limite di età e di esperienza della vita.
E questo – ho sempre pensato riflettendoci – perché quel periodo, il periodo della mia infanzia, penso sia stato il più intensamente colmo di relazioni affettive, di figure protettive e benevole – genitori, nonni, zii e zie, cugini e cugine, abitatori e frequentatori della grande casa – che in stuolo accompagnavano il mio stupefatto percorso iniziatico in quei giorni lontani, come su di un grande palcoscenico, agitandosi, muovendosi, ragionando, parlando, ridendo, altercando anche, come attori – mai dimenticati – di una commedia di cui ero unico e sbalordito spettatore: come fosse giocata apposta per me.
Un mondo lontano, ma sempre a me presente, in cui forse – ho spesso pensato – si dipanava, senza che io lo sapessi o ne capissi il senso, l’onda tranquilla di quella che forse poteva chiamarsi, in qualche modo, “felicità”. E forse proprio per questo ho sentito, a un certo punto, il desiderio forte di ritornarvi: per riprovare quella pacata, fiduciosa pienezza dell’essere – e dell’esserci – che sapevo di aver allora provato; ma non più forse in seguito.
Ma l’altro stimolo per cui mi sono indotto a scrivere questo libro risponde invece a un bisogno più esteriore e fondamentalmente politico. La necessità di far conoscere – anche alle persone più giovani che quel tempo non hanno vissuto – quei lontani e così cruciali scenari.
Certo, soprattutto per il loro valore esemplare e, per così dire, educativo, dando essi conto di momenti della nostra storia che meritano a buon diritto di essere definiti tragici; e però anche, in alcune loro manifestazioni curiosamente comici: e cioè, tragicomici. Che mi pare un monito importante, essendo in effetti estremamente tragico, che il comico possa unirsi al tragico.
Esisteva però anche un altro obbiettivo nel rievocare quegli scenari: cercar di rendere, di restituire, per quanto possibile il sapore ormai andato di quei tempi d’antan, di un’Italia, in cui scorreva una vita forse più lenta e semplice, forse meno puntualmente informata, e meno tecnologicamente organizzata, ma forse anche più dotata di compassione e solidarietà verso l’altro. In poche parole, e nonostante tutto, più umana.
Aveva conservato degli appunti? come ha fatto a mantenere il livello di dettaglio che si legge per tutto il libro?
Nessun appunto, solo forse qualche rara, vecchia fotografia: tutto qui, come “supporti“ esterni. Il resto è “fotografato“, inciso per sempre in tutti i suoi dettagli nel mio ricordo e, penso, proprio per quel rapporto estremamente speciale con la mia infanzia, nato durante il suo dipanarsi e di cui ho detto alla precedente domanda.
Ma anche per due fatti concomitanti che ho sempre pensato abbiano potentemente contribuito a mantenere vivo quel ricordo. Innanzitutto un fatto, per così dire, “naturale“, nel senso di fisico, di biologico: è cioè che, probabilmente, il mio meccanismo mentale è predisposto a cogliere la realtà esterna soprattutto per immagini, trattenendo poi tenacemente ciò che con lo “scatto” è stato fissato.
In secondo luogo, ha certamente decisiva importanza a spiegare la diffusa presenza del dettaglio nei miei ricordi, il fatto che nel corso di tutta la mia vita quei luoghi, quei personaggi, quegli eventi, episodi, accadimenti ho continuato a portarli sempre con me, tornandovi spesso con la memoria, ripercorrendoli e rivisitandoli.
E’ accaduto perciò come con le poesie imparate a memoria che presto si dimenticano, a meno di non ripetersele e recitarsele ogni tanto fra sé e sé. Come anche, in effetti, a me capita spesso, suscitando la meraviglia degli amici a cui pare incredibile che io rammenti alla perfezione, per esempio, il “Sabato del villaggio“ – ma non solo – imparato in seconda media, qualche secolo fa.
C’è stato qualche capitolo più difficile da scrivere? Perché?
Forse si. Certamente nel capitolo primo, il paragrafo iniziale: “La casa“. In esso c’è un continuo sforzo da parte mia – da parte dell’adulto – di penetrare nell’animo e nella percezione del “bambino“, cercando di cogliere e sviluppare rendendolo esplicito ciò che allora il bambino – che lui era – veramente, effettivamente pensava, rifletteva, giudicava.
Un lavoro difficile, faticoso e pieno di insidie, essendoci sempre il pericolo di debordare e sovrapporre il pensiero e il giudizio dell’adulto a quello del bambino, che sul palcoscenico del passato si muoveva e agiva con una sua propria e precisa percezione del mondo e delle cose. Che andava scovata riprodotta e riferita – fedelmente.
Questo è stato, io credo, lo scopo principale di quello sforzo, forse perché il ritorno a quei pensieri, quelle riflessioni, quei giudizi di allora, mi riportava, mi precipitava – come in una straordinaria macchina di entanglement quantistico – a quel tempo di pienezza e di gioia tranquilla, che mi è parso di poter definire “ felice“. Spero di esserci, almeno in gran parte, riuscito.
Ha dei progetti di scrittura di prossima uscita?
Di questi ho accennato nella risposta alla prima domanda. Posso solo ribadire che non si tratta di un lavoro “di prossima uscita“, essendo attualmente solo in fase di elaborazione.
Ringrazio Remo Capone per le sue risposte molto articolate che hanno assolutamente soddisfatto tutte le mie curiosità. Alla prossima intervista!