Conosciamo insieme Michele Di Mauro:
Innanzitutto, chi è Michele Di Mauro nella vita di tutti i giorni? Quali sono le tue passioni e i tuoi hobby, oltre la scrittura?
Papà italiano e mamma americana, sono cresciuto in Italia dove ho insegnato per una quindicina d’anni in diversi licei e scuole superiori. Poi a trentasei anni io e Giovanna, mia moglie, anche lei insegnante, abbiamo mollato tutto e ci siamo trasferiti in Maryland con i nostri figli. Adesso insegno latino in una scuola superiore e italiano e latino come adjunct instructor presso un’università vicino a Baltimora. Viviamo una vita scandita dai ritmi della scuola e della famiglia. Per il resto lunghe passeggiate nei boschi e tanta scrittura e lettura.
Nelle ultime pagine del tuo romanzo, l’hai definito verosimile alle esperienze che ti sono capitate. Potremmo dunque definirlo autobiografico? Quanto c’è di vero e quanto di inventato?
Il libro non è autobiografico, anche se molti lettori del libro e anche del mio blog excathdra20.blog hanno voluto vedere nel Mr. D delle storie me stesso. Diciamo che è un racconto verosimile, molto credibile della vita scolastica americana, forse a tratti romanzata per ovvie convenienze narrative.
Michele Di Mauro, secondo te avresti potuto fare un libro simile ambientato in Italia, magari in una regione diversa da dove hai sempre insegnato?
Difficile, alla fine il libro si chiama Hey sembra l’America, e poi sono già molti gli scrittori italiani che hanno parlato o parlano di scuola molto bene… Paola Mastrocola, Enrico Galiano, Alessandro D’avenia… lascio volentieri a loro il privilegio di raccontare la scuola italiana.
Cosa volevi dare al lettore con questo tuo romanzo?
In pochi concetti base? Che insegnare è dannatamente difficile ma al tempo stesso tremendamente bello…
Cos’hanno di simile gli studenti italiani rispetto a quelli americani?
I soliti problemi generazionali, famiglie difficili, a volte allargate, tanti contatti sui social media, voglia di trasgredire e divertirsi e sognare, ma anche un grande desiderio di essere ascoltati e presi sul serio. Tanto i ragazzi italiani quanto quelli americani sono figli di un mondo connesso, fatto di Netflix e videogiochi… valorant, league of legends, apex legends, call of duty warzone, tik tok, instagram, snapchat… tanto per capirci.
Leggendo il tuo romanzo si nota come fai spesso similitudini al patriottismo romano. Sono davvero legati così tanto da questa cultura patriottica, rispetto allo studente medio italiano?
Direi di sì. Gli americani, al di là dei campanilismi, hanno sempre avuto un’incrollabile fiducia nelle istituzioni, nei suoi principi di democrazia, di economia, nei suoi valori di patria che si legano a quelli di famiglia e di religione. Insomma, per dirla semplice, per l’americano, essere americani, vuol dire prima di tutto essere dei predestinati. La cultura che a volte rasenta la propaganda insegna fin da piccoli che chi vive in America è suo malgrado baciato dalla sorte, non a caso nelle cerimonie ufficiali si canta l’inno Nazionale, la bandiera è presente in tutti gli edifici pubblici, a scuola ogni mattina gli studenti giurano davanti alla bandiera recitando a memoria il pledge of allegiance, il giuramento di fedeltà alla bandiera americana, e in uno dei passaggi si dice appunto che l’America è una nazione al cospetto di Dio… che poi è quello stesso Dio che troviamo nelle banconote da un dollaro nel motto ‘in God we trust’, come a dire… noi di Dio ci fidiamo perché di convesso anche lui si fida di noi…
Pensare che l’insegnamento sia un lavoro complesso e affascinante, andare in America, dove dal tuo romanzo si deduce come la cultura (in generale) sia un optional, non ti ha demotivato negli anni?