Caro iCrewer, Pècmén è un libro molto particolare, scritto in maniera molto singolare. Un testo che mi aveva già conquistato quando a suo tempo, a inizio estate in occasione della sua uscita per Blonk Editore, avevo scritto la segnalazione. La curiosità di leggerlo è stata subito forte, per via del contenuto che si presentava come un vero viaggio nel tempo negli anni ottanta, e così, in questa particolare prima metà di agosto l’ho letto con molto piacere.
Agosto particolare perché per la prima volta dopo tantissimi anni non andrò in vacanza, ma mi rilasserò tra una gita giornaliera e un aperitivo serale leggendo i nuovi libri che mi sono procurato in vista appunto di questo ultimo scampolo di estate.
Uno di questi libri è Pècmén di Fabrizio Venerandi, un autore che già dalla sua biografia ha attirato la mia attenzione: autore, poeta e programmatore. Nel piccolo mondo che c’è nel mio limitato immaginario, faccio davvero fatica a mettere insieme queste due passioni: la letteratura e l’informatica, invece, Venerandi, con il suo romanzo, riesce splendidamente a smentirmi e sopratutto a dimostrarmi che la cosa è fattibile. E io che credevo ci fosse un abisso tra chi scrive e chi programma. Chissà perché.
PÈCMÉN: RECENSIONE
Pècmén, è una sorta di diario scritto in prima persona dall’autore, che racconta i suoi anni che vanno dall’infanzia all’adolescenza attraverso ricordi sbiaditi dal tempo e scanditi dalle varie tappe insite nella crescita di ognuno di noi: i giochi con gli amici, la scoperta del mondo femminile e i primi timidi approcci, la voglia di ribellione verso le regole imposte dai genitori e la voglia di fuggire da tutto seguendo l’ambizione di creare qualcosa di grande per il proprio futuro.
Il contesto in cui si susseguono questi ricordi è Sant’Olcese, un piccolissimo paese della provincia di Genova, uno di quelli in cui ci sono una Chiesa, una piazza, un circolo ACLI e una grande industria che da lavoro a quasi tutta la popolazione.
Ah, dimenticavo, siamo in pieni anni ottanta.
Gli anni in cui c’è un vero e proprio boom della cultura pop che getterà le basi per i decenni a venire.
La vita di Fabrizio, il protagonista di Pècmén, diviso tra le partite a pallone con gli amici e la passione per l’astronomia, viene sconvolta quando al bar del paese, il vecchio flipper viene sostituito da un videogioco cabinato di nome Pac-man. Da quel momento tutta la sua esistenza inizia un processo di evoluzione interiore. In concomitanza con l’arrivo di quel gioco Fabrizio intraprende il percorso per diventare grande.
Succede così che tra un Mike Bongiorno in TV, un telefilm di Italia Uno e una canzone dei Duran Duran, Fabrizio si scopre grande appassionato di informatica, e in particolare di videogiochi, mezzo con il quale riesce a viaggiare attraverso mondi paralleli e inimmaginabili per un piccolo paese di provincia dove non succede letteralmente mai niente.
È proprio questo il punto che ho più e più volte sottolineato con il mio pensiero. Le avventure testuali che coinvolgono e rapiscono Fabrizio sono davvero paragonabili ai racconti. Giocarci era un po’ come leggere? E visto che non si trattava solo di una esperienza passiva, ma si decideva attivamente delle sorti dei protagonisti attraverso comandi testuali, si può azzardare che era anche un esercizio di scrittura?
Ammettendo di non averci mai giocato, e di non conoscere perfettamente questo mondo, mi riservo di chiederlo direttamente a Venerandi nella prossima intervista che uscirà nella nostra rubrica Sogni di carta. Perché forte è la voglia, anche, di capire come poter smontare la mia idea che un programmatore vive di numeri senza lasciare spazio all’emotività, mentre uno scrittore è per forza guidato da emozioni calde che trasformano i suoi pensieri in parole.
Come ho già anticipato, con Pècmén, l’autore è molto bravo nel trasmettere le sue emozioni e le sue sensazioni, anche grazie a una scrittura diretta che spesso non fa molti giri di parole e arriva dritta al dunque. Venerandi, usa volentieri anche una tecnica in cui elenca fatti, ricordi e personaggi che hanno caratterizzato il decennio più glam della storia, costruendo una fitta rete di parole che riempiono la pagina divise soltanto da una virgola: visivamente mi ha fatto pensare alla famosa schermata di Matrix, ma probabilmente è soltanto una mia suggestione preconfezionata dal dover per forza scovare il programmatore nascosto nello scrittore.
PÈCMÉN: RICORDI
Il punto di forza di Pècmén è senza dubbio la capacità di risvegliare i ricordi custoditi nei cassetti della memoria (o file) del lettore. Io, pur non essendo mai stato un grande appassionato di informatica, e le mie competenze attuali lo dimostrano, sono riuscito benissimo a immedesimarmi in tutta la storia perché sono cresciuto con amici che invece passavano tutto il giorno a parlare di livelli di videogiochi, programmi e che infatti poi, si sono tutti affermati nel mondo del lavoro legato ai dati digitali.
Ricordo di interi pomeriggi passati a casa loro a giocare alle prime consolle, mentre ipnotizzati sfogliavano come fosse il Vangelo la rivista The games machine, TGM, per dirla alla loro maniera. A differenza di Pècmén, però, visto che io sono del 1979, tutto questo avveniva negli anni novanta.
Ma poco cambia, specie se si fa riferimento ai primi approcci con le ragazzine e le compagne di classe. Ho molto apprezzato le pagine dedicate a questo tema, a quello della scoperta della sessualità e del cambiamento del corpo di noi ragazzi. La presa di coscienza che il nostro amico iniziava a richiedere attenzioni particolari convogliando su se stesso tutto il sangue presente nel corpo, i primi baci e le prime limonate nascosti sulle panchine ai giardinetti e i primi piccoli ma grandi problemi di cuore.
Ripensandoci mi viene una malinconia grande come una landa sconfinata.
Ricordo sempre con il sorriso quegli anni, in cui ero così impacciato da sentirmi davvero uno sfigato, ricordo gli appostamenti con la bicicletta per vedere le ragazze delle superiori uscire da scuola, con le loro gonne corte e le magliette con la scollatura che lasciavano intravedere quello che per noi appena tredicenni sembrava il paradiso. In realtà la scollatura è rimasta il paradiso anche ora che ne ho più di quaranta, ma non diciamolo ad alta voce :-).
La fortuna, o forse la sfortuna, di noi ragazzini era che sapevamo non abbatterci davanti alle delusioni o ai due di picche che piovevano a raffica, perché comunque avevamo sempre il nostro pallone e talvolta i nostri videogiochi che cancellavano completamente ogni tipo di pensiero rivolto all’universo femminile. Non ho mai capito se è stato un bene o un male, e se è una cosa che ci si porta dentro davvero per sempre.
CONCLUSIONI
Concludendo, in attesa di intervistare l’autore per approfondire i temi del libro, mi sento di dare un giudizio più che positivo a Pècmén, che con la sua scrittura pratica e evocativa racconta benissimo la storia di chiunque faccia parte di quella generazione di ragazzi che si è trovata a fare i conti con gli anni ’80. Anni a cui l’autore sembra voltare un po’ le spalle, ma anni che hanno senza dubbio contribuito a farci essere chi siamo. Un libro che si legge piacevolmente, che scorre e che strappa qualche sorriso, sempre che si sia disposti a viaggiare nei ricordi della propria giovinezza senza poi rimanere male pensando a quanti anni sono ahimè passati.