La settima lapide è l’ultimo romanzo di Igor De Amicis, commissario di Polizia Penitenziaria e scrittore. Con questo libro torna al thriller e al poliziesco abbandonando, per il momento, i libri per ragazzi.
Eccoci con un poliziesco fresco di stampa, ambientato nel lato buio di Napoli, nella parte complicata e corrotta. A muoversi per le strade della città personaggi dalle molteplici sfaccettature, tra i quali, anche quello che sembra il più innocente ha molto da nascondere.
Per prima cosa vediamo la trama
Un cimitero fuori Napoli, sette fosse scavate nel terreno. Per ciascuna, una lapide con nomi e cognomi incisi sulla pietra. Soltanto la prima tomba è già stata riempita, dal corpo di un piccolo boss della camorra, trovato morto con la gola tagliata di netto. Le altre sei sono ancora vuote, un avvertimento, una promessa: “Per la morte c’era ancora tempo. Quelle erano lapidi per il futuro, in attesa“. I “proprietari” delle fosse, gli ormai morti che camminano, sono mafiosi e capiclan, narcotrafficanti e assassini, tutti delinquenti con alle spalle attività losche e omicidi. Il perché siano stati scelti e chi sia l’assassino, il famigerato ‘o Schiattamuorto, sfugge anche alla polizia. L’ultimo nome è quello di Michele Vigilante, un uomo che è diventato leggenda facendosi rispettare prima sulla strada, con la violenza, poi in carcere, grazie al codice d’onore. Si è fatto più di vent’anni dietro le sbarre e, proprio adesso che ha ottenuto la libertà anticipata, una condanna ben peggiore sembra aspettarlo. Ma non è un caso se un tempo Michele era conosciuto con il soprannome di “Tiradritto”: non si è mai fermato davanti a niente e non lo farà neanche stavolta, nella terribile caccia all’uomo che è destinata a pareggiare conti di molto tempo prima.
Iniziamo col dire che La settima lapide è sicuramente un thriller insolito,
o, almeno, molto diverso dai tanti thriller che ci sono in giro. Come ogni libri del genere vi sono omicidi, ovviamente misteriosi e dalla non facile risoluzione. Inutile negare che i delitti sono la cosa che più attira noi amanti del thriller; vogliamo sapere i dettagli, ogni macabro particolare. E, in questo, il libro non delude. Ogni morte è diversa, l’assassino non ha un modus operandi, cosa che rende più difficile il lavoro per la polizia e anche per noi lettori, che non riusciamo a farci un’idea sul possibile assassino. La prima vittima viene sgozzata, la seconda impiccata, la terza viene colpita da una pallottola che le spappola il volto. E tutti le morti che seguono sono diverse, ognuna con un suo stile. E già qui l’autore comincia a giocare con noi, facendoci sorgere il dubbio che, forse, si tratti non di uno, bensì di più assassini.
E la cosa avrebbe anche un senso. Tutte le vittime sono malavitosi. Dopo il primo omicidio, sono molti gli abitanti napoletani che esultano, che vedono lo Schiattamuorto più come un benefattore che come un assassino. Dopotutto cosa fa di male? Pulisce la città dalla feccia, interferisce con le sette malavitose, semina il panico tra i più temibili criminali. Mette per una volta in ginocchio tutti coloro che per anni hanno obbligato le persone a pagare il pizzo, hanno minacciato, gambizzato, ucciso senza batter ciglio. L’assassino è un paladino della giustizia, che lotta contro il male. Una sorta di Batman. Sono tanti, dunque, quelli che appoggiano la causa dell’omicida. Perché non pensare che a un assassino se ne sia aggiunto un altro e poi un altro ancora?
Ma parliamo ora di cosa caratterizza questo thriller, di cosa lo rende al di sopra della media.
Se fosse stato un comune thriller non avrei esitato a dare tre stelline. Invece ne ho date quattro e un motivo ci deve essere, anzi, più di uno.
Innanzitutto, l’ambientazione. Napoli e, più in particolare il quartiere di Scampia, è sicuramente un luogo che si presta e, se ben elaborato, può fornire un ottimo luogo d’azione. E non abbiamo bisogno di grandi prove, ne basta una, Gomorra. La Napoli descritta è quella che potremmo chiamare la Napoli sotterranea, la parte oscura, marcia. La città controllata dalla camorra, dove gli abitanti chinano la testa e non si ribellano, dove non vedono e non sentono. “A Scampia non si poteva protestare. Anche volendo chiamare qualcuno nessuno sarebbe venuto. E poi che figura ci si faceva, se si veniva a sapere che uno del quartiere aveva chiamato gli sbirri? Era come darsi la patente di infame e a quella nessuno ci teneva. La gente tirava a campare, senza infamia e senza lode, solo a campare“. Il quartiere dove fin da piccoli si inizia a lavorare per le più importanti famiglie, si inizia a costruire una carriera da perfetto criminale. E se non lo si fa, che disonore per le madri e per i capi famiglia!
C’è da dire, però, che è anche una scelta molto rischiosa. Napoli è una città che più di qualunque altra viene automaticamente associata al crimine. Altro rischio, è quello di risultare fazioso. Di parlare per frasi fatte, girando attorno a una morale preconcetta, innalzando i Buoni e condannando i Cattivi. Non che si debba parlar bene della Mafia ovviamente, ma se si vuole parlarne male bisogna farlo con cognizione di causa, con dati e informazioni alla mano, non lasciandosi andare a una sfilza di luoghi comuni stile Padrino. Igor De Amicis, intelligentemente, non si schiera e non critica. Almeno, non in modo esplicito. Presenta i fatti, nessun giudizio, nessuna frase che potrebbe pericolosamente tendere a una morale. I camorristi sono camorristi, delineati senza abbellimenti caricaturali; i loro pensieri, che noi lettori veniamo a scoprire, non sono filtrati. Sappiamo quello che hanno fatto e veniamo a conoscere, andando avanti con la storia, ogni squallido particolare. Ma senza che venga espresso un giudizio né una condanna.
La scelta stessa del protagonista,
non un poliziotto o un detective, bensì Michele Vigilante, un ex camorrista, appena uscito di prigione dopo aver scontato vent’anni, scongiura il pericolo di una storia scontata. Ma come? Il protagonista non è uno dei Buoni? Non stavolta. Tutto gira attorno a Tiradritto, che sembra stare al centro di tutta questa faccenda. Tutte le vittime lo conoscevano, avevano gestito affari con lui prima dell’incarcerazione, per poi sparire. Per questo, si arriva a dubitare anche di lui. Che abbia una lapide con inciso il suo nome potrebbe servire da semplice distrazione o da meta finale. Una volta completata la vendetta, un colpo in bocca e dritto nella fossa.
Altra grandissima qualità del libro è sicuramente il linguaggio usato.
Finalmente un libro dove se un personaggio è napoletano parla in napoletano, se non ha finito neanche le medie non si esprime come un professore di Oxford, se in preda alla rabbia non risparmia parolacce, senza affettati eufemismi, come “accipicchia” o “cavolo”. Ogni personaggio parla come mangia. Ognuno di loro ha un suo modo di parlare e di pensare, che diventa familiare per il lettore. E molto efficace per immaginare i vari personaggi, per vederli muovere nella nostra testa mentre leggiamo. Vigilante è freddo, logico in ogni pensiero che fa. Anche durante i suoi deliri, mantiene una mente paradossalmente lucida, talvolta distaccata. Un uomo ironico, intelligente, attento. E questo lo capiamo senza bisogno di un intervento diretto dell’autore, semplicemente da come parla e da come pensa.
Dulcis in fundo,
una cosa che ho trovato molto bella e in un certo senso poetica. All’inizio di ogni capitolo sono riportate citazioni di libri celebri; Cuore di tenebra di Conrad, L’uomo che ride di Hugo, Guerra e pace di Tolstoj, il Faust di von Chamisso. Proprio attraverso questo libri, Michele Vigilante racconta la sua storia. Ogni libro è un ricordo, una persona, un momento della sua vita. E ogni racconto accompagna Vigilante verso la soluzione, verso la fine. Sono i libri che tracciano la strada e che mettono un punto alla storia di Tiradritto e dello Schiattamuorte. Una fine imprevedibile e commovente, in cui la vendetta diventa pace, la morte diventa vittoria.