“Verso i sei, sette anni ero convinto che ci fossero due vite, una con gli occhi aperti e l’altra con gli occhi chiusi”
Con questa epigrafe, tratta dal Libro dei sogni di Federico Fellini, si apre La legge del sognatore. Si tratta
tratta fra Torino a Ronco Scrivia (ed è passato anche il controllore). Quindi, per ingannare il tempo da qui all’arrivo, non mi rimane che scriverne. Se qualcuno pensasse che questa non sia che un’opera volta a far cassa in occasione del centenario della nascita di Fellini, sappia subito che non sono assolutamente d’accordo. Prima di tutto perché Pennac mi piace e gli voglio bene, poi perché, con tutto quello che ha scritto, fra romanzi, fumetti, saggi, drammi e quant’altro, credo proprio che abbia guadagnato abbastanza per smettere di scrivere e se lo fa ancora vuol dire che gli piace e ne ha ancora voglia. Sono invece convinta che Pennac ami Fellini e voglia ricordarlo con affetto, partendo da una delle cose più importanti per il regista: il sogno. Che Fellini abbia realizzato un libro dei sogni, con disegni e annotazioni è noto e che sognasse sia i suoi personaggi che i suoi film è una voce che ha messo in giro lui stesso. Non si sa se esagerasse o volesse scherzare, ma i suoi film lo confermerebbero, visto che spesso sembrano costruiti come fossero un sogno. Nei suoi ultimi anni, Fellini era affranto perché non sognava più; ha smesso di fare film e, anche se la medicina ufficiale sicuramente avrà molto da ridire su questa affermazione, ne è morto.
Non è il caso di riassumere un libro che, in fondo, non ha una vera storia, ma sembra più una metafora della scrittura come sogno; o forse del sogno come scrittura? Come nella maggior parte dei libri di Pennac il narratore è in prima persona, ma in questo libro è in primissima persona. È chiaro che un io narrante non si deve identificare mai con l’autore, ma questa volta Pennac inserisce talmente tanti fatti autobiografici facilmente riscontrabili come veri che si diverte più del solito a confondere il lettore, mescolando realtà e finzione. Addirittura si prende il gusto di dire cosa è vero e cosa è inventato, dopo aver finto di avere svelato la genesi dei suoi libri di Kamo e dopo aver scritto, subdolamente, “Per quanto ricco di immaginazione uno scrittore non inventa granché. La maggior parte delle mie trovate sono ricordi che si trasformano in storie …” Ma il diabolico francese non si accontenta di giocare con la realtà e la letteratura, lo fa anche con la realtà e il sogno, in un intrico di labirinti e scatole cinesi che avrebbe entusiasmato Borges. Al di sopra di questo mondo incoerente e simmetrico sorride il Maestro Riminese, tanto che, quando Pennac dà la parola a Fellini, sembra di sentire proprio la sua voce “flautata e nasale” (gli aggettivi sono di Pennac). A parte le numerose epigrafi che aprono i molti capitoli, tratte da dichiarazioni o scritti di Fellini, a parte l’aperta lode dei suoi film, a parte la resurrezione di Fellini, attraverso una – sognata – rappresentazione teatrale al Piccolo di Milano, direi che il vero omaggio di Pennac a Fellini consista nel cercare di scrivere un libro con lo stesso linguaggio dei film del Maestro. E il linguaggio non può essere che quello del sogno.
E ora veniamo al giudizio sul libro
Anche gli scrittori più grandi, forse con la sola eccezione di Shakespeare, hanno dato il massimo in un’unica grande opera. Gabriel García Márquez, per esempio, ha scritto i più bei romanzi del Novecento, ma il suo compito nella vita era scrivere Cent’anni di solitudine. Tutti gli altri romanzi, che sarebbero stati l’assoluto capolavoro di un altro scrittore, gli sono inferiori. Daniel Pennac è nato per scrivere la saga dei Malaussène; non potevamo pretendere un altro capolavoro. E vorrei dire un’ultima cosa che sembrerebbe mettere in dubbio la validità di questo lavoro, ma non è così, casomai esprimo le mie perplessità sulle politiche editoriali. Se questo libro, ammesso
Il voto, a questo punto, non può essere che 8 ½.