Il cartello recita “boarding home”, pensione privata, ma io so già che quella sarà la mia tomba….
Questo è l’incipit del romanzo ed è la sensazione che il protagonista prova arrivando in quella che sarà la sua “casa” da quel momento in poi. Sembra quasi il cartello che trova Dante all’inizio della selva oscura e, in effetti, quel luogo è molto simile all’inferno. L’autore, con un linguaggio crudo ed essenziale proprio per questo molto efficace, descrive la miseria umana in molte sfaccettature: c’è la malattia mentale, che fa perdere di vista la realtà e fa compiere gesti inconsulti, c’è la solitudine di chi viene abbandonato dai parenti in fatiscenti strutture per indifferenza e c’è la peggiore delle miserie umane, la grettezza e la crudeltà di chi specula sulle malattie e sui disagi altrui. E’ un viaggio all’inferno, sempre più in basso, apparentemente senza ritorno: l’ansia accompagna il lettore in questa scoperta dell’orrore. Ma l’arrivo di Francis, e la nascita di quella che potrebbe essere una storia d’amore, sembrano quasi voler dire che non tutto è perduto, che ci può essere una speranza anche in un luogo del genere. Sarà davvero così?
Il personaggio di Figueras è una specie di Caronte, che accompagna il lettore in questa discesa agli inferi. Si muove tra le infamie e le brutture della casa di riposo con indifferenza, quasi, con rassegnazione, tanto sa che non può cambiare le cose, può solo cercare di adattarsi. E’ lui che ci guida nel lager della pazzia, senza fronzoli, senza commenti, lucidamente distaccato. Non dà in escandescenza, non si dispera, semplicemente si trascina. Intorno a lui, tutti gli altri, in secondo piano, come in dissolvenza, ma perfettamente descritti, anche quelli in apparenza minori.
Non ho evidenziato refusi, né errori di altro genere.
Un romanzo sofferto, delirante, angosciante, che difficilmente si dimentica, anche se non lascia sensazioni sempre positive.