Un romanzo un perché!
Al centro di una troppo vasta cerchia di personaggi quasi del tutto insignificanti, male assortiti, dispersi in una foga descrittiva senza colore, sterile a dir poco, e, al contempo, stretti nelle troppo piccole maglie di un paesino – Bellano – collocato geograficamente sulla sponda orientale del Lago di Como e temporalmente nel primissimo dopoguerra, si colloca lui, Attilio Fumagalli, il “Sindacone”; un protagonista sterile, ordinario sin dal nome, che, nell’arco di ben 239 pagine compie quattro azioni in croce e tutte di una tale banalità ed ovvietà che persino gli estensori dell’epitaffio di monsieur de Lapalisse ne sarebbero inorriditi.
Troppe pagine in cui non accade nulla ed il vuoto dell’azione non è occupato nemmeno da spunti comici o da trovate argute, solo da frequentissimo turpiloquio e gratuite descrizioni di atti sessuali, pensieri pruriginosi et similia. Citiamo qui alcuni passi a mo’ d’esempio: “Quindi, senza timore di venir meno alla promessa fatta, si chiese due cose. La prima, chi cazzo glielo aveva fatto fare di uscire di casa a quell’ora di notte, con quel vento e quel freddo, per andare in quella cazzo di casa? Ma soprattutto chi cazzo doveva ringraziare per essersi trovato tra l’incudine e il martello” e ancora, “Lui, specchiandosi nella languida tristezza della Luisetta e abbassando lo sguardo sulle sue sfolgoranti tette, aveva mormorato che almeno aveva un tetto sopra la testa mentre lui, fino a che non avesse trovato uno straccio di impiego… Per farla breve, la Luisetta l’aveva invitato a fermarsi con lei e un paio d’ore più tardi, mentre i due erano avvinti in un nodo di carni inestricabile, la porta del capanno s’era aperta, scardinata da un formidabile calcio piazzato da Pomezio Tantelli.” Di queste 239 pagine le prime 130 circa si rifanno ad un unico giorno, quello della convocazione del consiglio comunale per la vigilia di Natale; l’autore si sofferma a raccontare episodi di vita di personaggi sostanzialmente avulsi dalla storia narrata, personaggi per altro minimi, macchiette appena abbozzate che sembrano venir fuori dritte dritte dalla commedia dell’arte. E allora ecco fioccare i vari Arlecchino, Pulcinella, Balanzone, Colombina, Pantalone etc.; tutti rigorosamente caricaturali, privi di dinamicità, inquadrati in un caleidoscopio immobile di provincia profonda. Una sorta di Antologia di Spoon River dei poveri, anzi, dei poverissimi. La banalità della trama – che, in poche parole possiamo sintetizzare con le pruriginose voglie del “Sindacone”, ostacolate dalla di lui consorte che, contrariamente, ha trovato la pace dei sensi dopo un incidente che l’ha resa sorda – è aggravata da una prosa sciatta e trasandata, né dialettale né italiana; non si ha il coraggio di narrare nel proprio dialetto né di abbandonarlo per una scrittura più ricercata.
Un tempo anche gli scrittori seriali – coloro che, scrivendo libri uno dietro l’altro per sbarcare il lunario, appartenevano a quel substrato della letteratura di consumo – avevano una qualche dignità e, perché no, anche un certo talento nel proporre e riproporre intrecci stantii, ripetitivi; giusto per restare in tema col periodo trattato dallo “scrittore” da noi malauguratamente preso in esame, mi sovvengono certi romanzetti di Delly che, a confronto, meriterebbero un encomio solenne per originalità e fascinazione.
239 pagine per descrivere gli escamotage di Attilio Fumagalli – un poveretto certamente non baciato dalla fortuna per quanto concerne l’aspetto estetico – per andare a prostitute e per poi invaghirsi di una di esse, sono decisamente troppo anche per uno che divora libri come me; avrei abbandonato la lettura del testo sin dalle prime battute non avessi avuto il compito di recensirlo.
A supporto di quanto scritto citiamo alcuni passaggi esemplari di tale “opera”: “Il Fumagalli non era mai stato un assatanato. Consumatore moderato piuttosto, abituatosi a regolari e soddisfacenti scadenze solo dopo il matrimonio. Ma darsi all’astinenza totale era altra faccenda. Sperando in un ripensamento della moglie aveva sopportato altri mesi di forzata castità. Poi però certe voglie che più reprimeva più ritornavano a esigere il saldo l’avevano spinto a riflettere su come ovviare” e ancora “Più di una volta, pur percependo uno sfumato sentimento di colpa, il Fumagalli s’era inebriato al pensiero di quanta libertà potesse godere con una moglie che avrebbe dormito come un sasso fino al mattino e anche oltre, quasi ne sentiva il sapore. Una libertà che concedeva allo svolgere con puntigliosità il suo incarico di sindaco. Ma che, all’occasione, avrebbe potuto fargli comodo altrimenti. Se solo ne avesse avuta la possibilità. Se solo avesse saputo come, dove. Soprattutto con chi!”
Andrea Vitali
Figlio di Edvige ed Antonio Vitali, entrambi impiegati comunali, è nato e cresciuto a Bellano, sulla sponda orientale (quella “lecchese”) del lago di Como, primo di sei fratelli. La madre Edvige muore quando Vitali ha diciassette anni ed il padre è aiutato nella cura dei figli dalle tre sorelle. Dopo aver frequentato quello che lui stesso definisce «il severissimo liceo Manzoni» di Lecco, rinuncia alle sue inclinazioni verso il giornalismo e, per soddisfare le aspirazioni paterne, si laurea in medicina all’Università Statale di Milano nel 1982. Sposato con Manuela, da cui ha avuto il figlio Domenico. Vive da sempre nel suo paese natale e, nonostante dichiarazioni rilasciate nel 2008, abbandona la professione medica nel 2014 per dedicarsi alla scrittura.
È tifoso del Como.