Gilly Macmillan pubblica un nuovo romanzo, acclamato dalla critica, che la riconferma una scrittrice di thriller più che valida.
In questo romanzo, Era il mio migliore amico, torna il detective Jim Clemo, protagonista di 9 giorni, lavoro dell’autrice che più di tutti è stato apprezzato dal pubblico. Personaggio che ancora una volta non delude e che fa sperare in casi futuri.
Vediamo la trama
Il detective Jim Clemo, messo a dura prova dal suo ultimo caso e tornato a lavoro dopo un congedo forzato, si trova a indagare sul caso di due ragazzini, Noah Sadler e Abdi Mahad. Il caso sembra apparentemente semplice: una notte, mentre i due amici erano insieme, Noah, bambino molto fragile e malato, è caduto nel fiume, rischiando di annegare. Il ragazzo viene salvato, ma rimane in coma. Abdi, testimone di quanto accaduto, non vuole però parlare e raccontare alla polizia cosa sia successo. Il tutto fa credere a un semplice incidente, frutto di una ragazzata finita male. Un semplice caso, destinato a concludersi velocemente. In realtà, le cose sono molto più complicate di quanto sembri. Il detective dovrà riuscire a districare una trama molto più intricata del previsto, cercando contemporaneamente di tenere sotto controllo un passato che continua a tormentarlo. A complicare le cose arriva la stampa, che fa diventare il caso di interesse mediatico. Non ci vuole molto prima che si cominci a puntare il dito contro Abdi, di origini somale. Si comincia a parlare di un atto di razzismo. Il ragazzino sembra colpevole da ogni punto di vista, il suo improvviso mutismo e reticenza a collaborare, lo rendono ancora più sospetto. Il caso diventerà sempre più difficile da risolvere. Non tutto, infatti, è come appare. Le famiglie dei due ragazzi hanno i loro segreti da nascondere e l’indagine risolleverà ben presto un passato taciuto a lungo e una verità incredibilmente dolorosa.
Il thriller funziona, il ritmo è incalzante e non ci sono mai momenti morti
Il ritmo sta alla base di ogni libro, a maggior ragione di un genere come il thriller che si basa sulla suspense. E in questo romanzo è sicuramente presente e sempre incalzante. Non ci sono mai scivoloni che fanno perdere interesse verso la storia o elementi inutili che fanno storcere il naso. Ogni fatto presentato, ogni particolare è essenziale e funzionale.
I personaggi sono ben caratterizzati
Ciò che spesso rende efficace un romanzo, oltre alla trama, sono i personaggi. Devono affascinare, catturare l’attenzione del lettore. E non sempre è un compito facile, il rischio di cadere nel cliché e nel banale è sicuramene molto forte. In Era il mio migliore amico questo non succede. Sono pochi i personaggi di cui non ci ricordiamo. Tutti sono estremamente interessanti, ricchi di sfaccettature. Sono uomini e donne comuni, coinvolti, però, in situazioni spesso più grandi di loro, difficili da controllare e soprattutto da vivere.
Partiamo dalla famiglia Sandler. Il bambino è malato di cancro dall’età di sette anni, combatte con una malattia per tutti faticosa, ma che lo è ancora di più per un bambino così piccolo. Non può vivere come un adolescente comune, cosa che lo distanzia dai suoi coetanei. Per lui tutto è uno sfida. Al suo fianco ci sono i genitori, che lo aiutano nel superare tutte le difficoltà. Il padre è un fotografo di guerra, sempre in viaggio, che ha assistito a orrori di ogni tipo. È la madre che si occupa principalmente del figlio, che gli è sempre stata accanto, che ha sopportato insieme a lui gli infiniti cicli di chemio. Una madre iperprotettiva, per motivi più che comprensibili.
La famiglia di Abdi proviene da un passato difficile. I genitori sono entrambi profughi somali, hanno vissuto per anni nel campo profughi di Hartisheik, in condizioni, come ci si può immaginare, disumane. La figlia, Sofia, è una ragazza molto intelligente, studentessa di medicina, che vive a metà tra due mondi, in bilico tra i ricordi della sua vita passata e la sua nuova vita a Bristol. Una famiglia molto unita, sempre presente e che cerca ogni giorno di integrarsi in una società non del tutto aperta, sforzandosi di lasciare nel passato ricordi troppo dolorosi.
Il detective Clemo ha le due classiche caratteristiche che, dopo aver letto molti thriller, ti aspetti: un caso passato che lo assilla sotto forma di sensi di colpa e problemi di autocontrollo e di insonnia. Come ci si immagina, insomma, un poliziotto alle prese con un’indagine complicata. Ma va bene così, il personaggio non risulta mai costruito e, anzi, i suoi problemi quotidiani, la sua umanità, lo fanno solo sentire più reale.
Anche la narrazione è interessante
La scrittrice, infatti, adotta più punti di vista. Tutti i personaggi presentati nel libro parlano almeno una volta, rendendo la storia sicuramente più ricca e varia. Le voci che colpiscono di più sono quelle di Noah e di Sofia. Il primo ci parla dal coma, facendo vari salti temporali e raccontandoci l’amicizia tra lui e Abdi, che sembra essere il centro della sua vita. La sua voce è sincera, fino agli estremi, quasi cruda, come non ti aspetteresti da un bambino di quindici anni e, soprattutto, non da uno nelle sue condizioni. Si rivela in tutto e per tutto, non nascondendo i suoi lati peggiori, la sua gelosia nei confronti del migliore amico e i tentativi di tenerlo solo per sé. La ragazza, invece, colpisce per la sua saggezza: osserva in modo scrupoloso ciò che ha intorno, sono poche le cose che le sfuggono. È lei che conduce il lettore verso la verità, che comincia a unire tutti i pezzi. Le sue riflessioni e preoccupazioni per la famiglia e la sua situazione, che sa non essere delle migliori, sono tra le parti più belle del romanzo.
Il libro non ruota attorno a una semplice indagine. I temi sono ben altri e molto attuali
La cosa bella dei thriller, almeno di quelli scritti bene, è che si servono di storie di agevole lettura, per quanto macabre o dure, per raccontare molto di più. A tutti piacciono i misteri, la curiosità è ciò che spinge a leggere un buon giallo. E, attirato dalla storia, il lettore si trova, in realtà, immerso in molto di più. In questo caso il libro diventa un buon pretesto per parlare di argomenti che sensibilizzano nella società odierna e sicuramente attuali. Prima fra tutti la questione razziale. Abdi viene facilmente, troppo facilmente, additato come colpevole. Il perché è semplice; nonostante sia sempre vissuto a Bristol, rimane somalo e per questo non visto di buon occhio e non accettato da tutti. Sono soprattutto le riflessioni della sorella che mettono in luce la costante pressione, spesso invisibile, alla quale la famiglia continua a essere sottoposta. La difficoltà nel comunicare, soprattutto della madre, gli sforzi aggiuntivi che i due fratelli devono fare per mantenere un livello molto alto a scuola.
A questo si ricollegano i ricordi, spesso raccontati con la voce della madre di Abdi e Sofia. Un’infanzia felice, o se non altro normale, che viene improvvisamente stravolta dalla guerra. Una vita in un campo profughi, una vita al limite. La fuga verso un paese che sperano sarà adatto per una nuova esistenza, lontana da quei ricordi dolorosi e da un passato che si vuole dimenticare. Ma che, ovviamente, può essere solo messo da parte momentaneamente e che continua a influenzare la loro esistenza.
Un altro aspetto interessante della storia è la presenza della stampa che, per fare notizia, insiste sugli aspetti razziali della vicenda. Sui giornali si congettura un possibile coinvolgimento di Abdi in un movimento fondamentalista, esclusivamente per le sue origini.
Il finale commovente riporta l’attenzione sul tema centrale del libro che è la forte amicizia che lega i due ragazzi
Nonostante le enormi difficoltà che entrambi devono affrontare, chi a causa della malattia, chi per via del suo passato difficile, la cosa più importante per loro rimane l’amicizia. Un’amicizia solida, che unirà i due ragazzi per sempre.