Chi lo ha mai detto che il telefono non può essere un buon conduttore di veri sentimenti?
Quando ho iniziato a leggere questo libro ne ho colto, sin dalle prime righe, la sincera ed immediata profondità con la quale l’autrice Delia Ephron, ha trattato e descritto le vicissitudini narrate: si dice che in questo suo romanzo, Avviso di chiamata, vi sia molto di autobiografico e, probabilmente, sarà anche vero; certo è, caro iCrewer, che questo è uno di quei libri che induce alla riflessione, che rivoluziona il tuo modo di guardare e di vivere i rapporti con i tuoi familiari, è uno di quei libri che, al termine, ti lascia quella voglia di chiamare un tuo caro e sussurrargli “Ciao, come stai? Volevo dirti solo che ti voglio bene”.
Non è da tutti riuscire a mettere a nudo certe sensazioni, così come non è da tutti trattare argomenti delicati come assistere al declino, fisico e morale, di un genitore, un genitore che ami ma che, per amore dell’apparenza, probabilmente, sostieni di non amare, fingi che nulla ti importi di lui, provi quasi ribrezzo dinanzi a certi suoi atteggiamenti espletati in pubblico, quando dentro di te, invece, conosci benissimo la verità: sai bene che, nonostante tu cerchi di negarlo a te stessa, quell’uomo è tuo padre e vorresti solo che lui fosse eterno.
Questa è la storia di tre donne, esattamente tre sorelle, Georgia, la maggiore, Eve, la ragazza di mezzo e Madeline – chiamata Maddy – la piccola di casa, che si trovano, sin da piccole, ad assistere ai continui, e malcelati, litigi fra i genitori i quali non si curano, né si preoccupano, di evitare che le figlie assistano a quelle che loro chiamano le lotte. È inevitabile, queste soventi discussioni non possono che condurre in un’unica direzione: il divorzio dei genitori che porta le tre sorelle a crescere e maturare insieme, così distanti fisicamente ma così vicine moralmente… e paradossalmente a renderle così unite; è un oggetto che, per antonomasia, serve a mettere in contatto coloro che si trovano in un luoghi diversi se non, addirittura, agli antipodi, il telefono, il vero ed indiscusso protagonista di questo romanzo.
E così iniziano, in un crescendo sistematico, le telefonate tra le donne, che sentono la spasmodica necessità di raccontarsi quotidianamente e di viversi, seppur distanti. Le telefonate non riguarderanno solo Georgia, Eve e Maddy ma anche il padre, Lou Mozell, un tempo rinomato sceneggiatore che, in fondo, non ha mai accettato la separazione dalla moglie, un padre che da quel momento vivrà la sua vita come se si trovasse sempre a bordo di una montagna russa. Il padre che, infine, deciderà di chiamare al telefono, in maniera ripetitiva e quasi assillante, una delle figlie in particolare, la quale, vorrà fare credere a tutti coloro che la circondano, ma principalmente a sé stessa, che non tollera che il padre la cerchi di continuo, che l’abbia proclamata come la prescelta dei suo sproloqui, ma, in realtà, è solo un voler contrastare ciò che nel suo inconscio prova: la paura, paura di perdere questo vecchio genitore.
«Lei è molto legata a suo padre» mi chiede. Odio questa domanda. Non li riguarda. Quello che li riguarda è scoprire che cosa c’è che non va stavolta nel suo cervello. Quello che li riguarda è aggiustare il dosaggio delle sue medicine per farlo funzionare. Ha solo bisogno di una nuova terapia. E’ già andato fuori di testa in passato. Gli è successo un sacco di volte. Risponderò a questa domanda spassionatamente. Mostrerò loro che un interrogatorio sui sentimenti che provo per mio padre non fa scattare proprio niente in me. «Mi occupo di mi padre, ma non sono legata a lui», rispondo con fermezza. Sorrido per mostrare che questa risposta fredda non solo è vera, ma anche facile da dare.
Il filo conduttore è questo: il rapporto tra queste tre donne e la decadenza, fisica e morale, che riguarderà il loro genitore, ma da questo filo si dipaneranno, come fili di una stessa matassa, tutte le vicissitudini private, intime, delle tre sorelle.
Cosa accadrà alle stesse? Saranno in grado di supportarsi e sostenersi a vicenda per aiutare il loro anziano genitore? Cosa ne sarà delle loro vite?
Caro il mio lettore, nulla voglio indicarti oltre della trama, voglio solo che tu ti incuriosisca a tal punto da decidere di correre a leggere questo libro, e sono certa che al termine della lettura, ti sentirai diverso, come se avessi preso coscienza di un qualcosa che, forse, fino a questo momento, avevi solo dato per scontato.
Tre sorelle diverse, per aspetto fisico e caratteriale, l’una dall’altra, tre modi differenti di essere e di concepire la vita e il lavoro, Georgia esuberante, indipendente, sicura di sé, Maddy la più piccola e la più ribelle, anticonformista, alla quale piace frequentare gente senza arte né parte. Poi c’è lei, Eve: la voce narrante di questo romanzo, una donna condiscendente e remissiva, per certi versi succube della sorella maggiore, alla quale, infatti, raramente, anzi forse mai, riesce a dire ciò che realmente sente, è come se non riuscisse ad esternare nei suoi confronti, ciò che realmente vorrebbe dirle, nutre nei una sorta di timore reverenziale.
«Ecco cosa faccio, mi lamento con Georgia di Madeline per quello che per cui in realtà sono arrabbiata con Georgia: per avermi abbandonato. C’è un momento in cui sono presa dal panico all’idea che Georgia possa accorgersene. Non esprimo mai la rabbia con lei, dice Adrienne, perché Georgia è la cosa più simile ad una madre che io abbia. Ho già perso una madre e non voglio rischiare di perderne un’altra».
Ma Eve non è solo questo, è una donna che deve affrontare i drammi adolescenziali del figlio sedicenne, le frequenti assenze per lavoro del marito e, soprattutto, è una donna che ha superato la quarantina e che si trova, volente o nolente, a dover fare i conti con i cambiamenti inevitabili che il proprio corpo sta subendo.
«Resterò qui a contemplare il mio povero sedere cadente, il mio mento, che minaccia di raddoppiarsi, e le rughe indesiderate che ho intorno agli occhi. Li guarderò finché non mi sentirò davvero male e so, so perfettamente nel profondo di me stessa, che questo bisogno irrefrenabile di sentirmi malissimo (o molto arrabbiata?) è colpa di mio padre».
E nel marasma di queste vicissitudini, inaspettatamente, e come un raggio di sole in una giornata buia, qualcuno le tenderà una mano, una mano che la tirerà fuori dal baratro nel quale stava per essere risucchiata e che le farà vedere la situazione nella giusta angolazione.
Di chi sarà questa mano?
L’ambientazione della storia si disloca tra Los Angeles e New York e già, di per sé, questo conferisce quel quid in più: si sa, queste sono città che ognuno di noi, almeno una volta nella vita, ha desiderato ardentemente di visitare; l’arco temporale di narrazione non è recente, inizia negli anni ’70 e segue lo svolgimento, negli anni, di questa famiglia, di queste donne, superando gli anni ’90.
Delia Ephron suddivide il libro in dieci capitoli: alterna alcuni nei quali la protagonista parla del suo presente, di ciò che accade in quel momento nella sua vita, ad altri nei quali, invece, si compie la classica digressione, ovverosia, Eve rievoca il passato, per farci capire come si è arrivati al punto attuale. Questo, devo essere sincera, ha generato in me un po’ di confusione perché, iniziando il nuovo capitolo, ho impiegato qualche secondo di lettura per raccapezzarmi sul segmento temporale, ovvero comprendere se mi trovassi nel presente o nel passato di Eve. Personalmente avrei iniziato con un incipit sul presente per poi fare una digressione raccontando il passato e, infine, il presente, l’attualità per giungere quindi alla conclusione della storia, ma questo, ovviamente, è solo il modesto punto di vista.
Il linguaggio utilizzato è semplice, lineare, mai banale o scontato, non eccessivamente articolato, non si segnalano refusi; grazie al linguaggio utilizzato riesci a mantenere alta la concentrazione, e benché leggendo alcune parti ho avuto il sentore di cosa succedesse dopo, non ho mai perso la curiosità di arrivare sino in fondo, di leggere e di sapere.
Non posso negare che ci sono stati periodi che mi hanno fatta non solo sorridere ma anche suscitato una delicata risata, perché l’autrice ha saputo intercalare in maniera sapiente tratti ironici che ti hanno fatto reso sempre più familiari questi personaggi.
Ho pianto? Bé, in realtà no, e nel mio caso è veramente strano, perché ho la lacrima sensibile, scivola anche quando non vorrei, ma non posso dire che certe scene non mi abbiano generato commozione, commozione per i sentimenti trattati e vissuti.
Il libro segue un’andatura stabile, ovvero, proviamo ad immaginare la prima parte come il mare calmo in un giorno d’estate, onde leggere, poi, verso la parte finale (intorno al capitolo nove) diventa dinamico, racconta in modo più veloce ciò che succede, insomma, il nostro mare si è leggermente increspato, ecco tutto.
Il finale si lascia un po’ immaginare ma è bello capire come ci si arriva, questo non lo puoi sapere se non leggendo il libro… la conclusione io l’ho intesa così: un nuovo inizio per le sorelle Mozell.
A chi consiglierei la lettura di Avviso di chiamata? Ne indicherei la lettura a chiunque voglia imparare qualcosa in più sui sentimenti, a tutti coloro che, spesso, sottovalutano la presenza di un familiare o, peggio ancora, ne danno per scontata la presenza: nessuno è superfluo ognuno con il proprio carattere e le proprie peculiarità può darci molto più di quello che pensiamo.
Delia Ephron, figlia degli sceneggiatori Phoebe e Henry Ephron, è nata il 12 luglio del 1944 a New York City, ed è la seconda di quattro figlie ed è ebrea, come tutta la sua famiglia.