Ho amato leggere I ragazzi della Nickel, perdermi nelle frasi costruite con profonda maestria ed entrare in questa storia un passo alla volta. L’ho letto in poco tempo, trascinata a valle da una piena di emozioni, stroncata sul finale, lasciata esanime a riflettere su quanto avessi letto, per poi ritornare un po’ indietro, e vedere se ci poteva esser una via di fuga da quel destino. Ma non c’è. E tanto poco è stato il tempo impiegato a leggere, tanto lungo è stato quello che ci sto mettendo a scrivere questa recensione.
La potenza narrativa de I ragazzi della Nickel
Due sono i momenti catartici di questa storia: dal primo non c’è scampo, solo una grande beffa. Il destino lancia i suoi dadi e decide che tocca a te, non importa quanto virtuoso tu sia, non importa se hai dei piani futuri, non importa se là fuori tu non sai nulla del mondo, non importa se, per ingenuità, fai un errore. Non importa. Tocca a te e in qualche modo dovrai cavartela, nonostante il colore della tua pelle. Il secondo, invece, non ti concede neanche questa speranza.
Ti stende, ti affoga in una realtà che non volevi conoscere e che non c’era modo di prevedere. E alla fine, quando l’ultimo punto chiude l’ultima riga, sta a te, lettore, trovare la forza: puoi far finta di non aver letto nulla – un gran peccato –, oppure, renderti conto che qualcosa in te si è smosso. Perché quello che racconta Colson Whitehead in I ragazzi della Nickel, ispirato dalla storia vera della Dozier School for Boys in Florida, può trasformare una lettura in un piano d’azione.
Colson Whitehead
Colson Whitehead nasce nel 1969 a New York, dove tuttora risiede. È uno scrittore statunitense, autore di sei romanzi e vincitore di numerosi premi. Con La ferrovia sotterranea (2016) si è aggiudicato sia il premio Pulitzer sia il National Book Award ed è stato un successo mondiale. A luglio del 2019 il TIME gli ha dedicato la copertina, definendolo il narratore d’America.