Buongiorno iCrewer! Oggi vorrei parlarti di un libro che ho letto da poco e che non riesco a togliermi dalla mente: La donna di sabbia, dell’autore giapponese Kobo Abe.
Non è un romanzo recente: la prima pubblicazione risale al 1962, seguita nel 1964 dalla trasposizione cinematografica a opera del regista nipponico Hiroshi Theshigahara. In Italia ci sono state varie traduzioni, alcune quasi coeve alla prima uscita del libri di Kobo Abe, altre più recenti. In particolare, ti cito quella edita da Guanda nel 2012.
Perchè, però, ho deciso di parlarti di questo libro? Semplice, perchè è una settimana che penso e ripenso alle varie chiavi di lettura che vi si possono dare. Basta scegliere di adottare una prospettiva, piuttosto che un altra; sottolineare un elemento e lasciarne in secondo piano un altro, per leggere un libro diverso.
Iniziamo, però, dalla trama.
La donna di sabbia: trama
In una calda giornata di agosto il professor Niki Junpei, entomologo dilettante, raggiunge un villaggio di pescatori sulla costa giapponese nella speranza di identificare un nuovo esemplare di insetto a cui dare il proprio nome. La sua vacanza, però, assume ben presto i contorni di un incubo: fatto prigioniero dagli abitanti del paese, viene trasferito nella casa di una giovane vedova, sul fondo di una profonda fossa di sabbia.
Superati lo stupore e la rabbia iniziali, Junpei scopre la verità: il villaggio vive nell’angoscia di essere inghiottito dalle dune ed è proprio per fermare la minaccia che vengono scavate quelle fosse immense. Junpei non deve fare altro che sostituire il marito della donna, morto da poco. Tra i due si sviluppa un rapporto carico di silenzi, segreti, inganni e, presto, di un disperato, violento erotismo.
Kòbò Abe descrive un’allucinata lotta per la riconquista della libertà, perché la sabbia, a differenza dell’acqua in cui si può nuotare, “imprigiona le persone e le uccide sotto il suo peso”.
L’ossessione per la sabbia
Tuttavia, non ho potuto fare a meno di chiedermi: siamo davvero sicuri che il centro di tutto il racconto di Kobo Abe sia questo entomologo per passione? E mi sono risposta: secondo me no.
Cerchiamo di elaborare. A mio parere, prima ancora delle vicende del malcapitato personaggio, l’attenzione si focalizza su un altro elemento, fondamentale e presente quasi in ogni pagina, oltre che nel titolo: la sabbia. È nella sabbia che Junpei cerca spasmodicamente un nuovo esemplare di insetto (in modo da potergli dare il suo nome e diventare, così, immortale). La sabbia permea ogni anfratto della casa in cui viene ospitato, tanto che, per evitare che gli finisca nel piatto, mentre mangia la donna apre un ombrello e glielo appende sopra la testa.
Ben presto, questo minerale del diametro di “1/8 di mm” diventa l’antagonista principale dell’uomo: non solo gli rende la fuga estremamente difficoltosa (già è difficile arrampicarsi a mani nude, figuriamoci se il pendio si deforma alla minima pressione), ma si intrufola in ogni aspetto della sua nuova vita.
La sabbia è negli occhi; in bocca; tra i vestiti; sui corpi, sudati dopo lo sforzo dell’amplesso. Nei pensieri, nelle illusioni e negli incubi. È nel tempo e nell’aria.
Per questo motivo, credo che la protagonista primaria di questo romanzo di Kobo Abe sia proprio la sabbia.
L’opera di Kobo Abe come uno Suiboku
Lo spunto per questa similitudine, mi è stato dato da una frase del professor Gian Carlo Calza, presente nell’introduzione all’edizione di La donna di sabbia che ho letto io.
“Sullo sfondo umido della carta bagnata il pennello scorre veloce e sicuro lasciando tracce di sumi (l’inchiostro di Cina) che si espandono infiltrandosi ora qua ora là a seconda del grado di umidità incontrata.
Ugualmente la sabbia crea lo sfondo mobile, mai permanente, sempre mutevole, su cui appaiono e scompaiono le immagini a momenti distinte a momenti avvolte come da una nebbia che ne rende obiettiva l’illusorietà”
Lo Suiboku, detto anche Sumi-e, è uno stile di pittura tradizionale giapponese, di origine cinese, che consiste nell’uso di inchiostro nero, più o meno diluito (ti ho lasciato il link dell’articolo al riguardo pubblicato in iCrewePlay Arte).
Dopo aver letto l’affermazione del professor Calza, non ho potuto fare a meno di paragonare i due personaggi di La donna di sabbia a due diversi componenti dell’arte Zen della costruzione di giardini secchi (karesansui), costituiti da rocce, sassi e, appunto, sabbia, e a vari elementi della composizione pittorica.
Forse, Junpei è così ossessionato dalla sabbia, perché egli stesso è come la sabbia. Cambia forma di continuo, è sempre in movimento. Dà l’impressione di essere stabile e affidabile, quando invece la sua primaria occupazione è la soddisfazione dell’ego e del senso di realizzazione personale.
È come i tratti di inchiostro diluiti, che servono per creare dimensione e movimento, ma che potrebbero venire cancellati da una sola goccia d’acqua in più.
La donna, invece, mi è sembrata più simile ai tratti d’inchiostro marcato. È come una roccia: fissa, stabile, ben definita. Sa qual è il suo ruolo, è ben conscia che la vita che sta vivendo non è solo misera, ma è anche completamente sacrificata a favore di un villaggio che non soddisfa nessun suo desiderio, a meno che lei non se lo sia guadagnato duramente.
Eppure, non è per nulla la sciocca che l’uomo disegna nella sua mente, non è l’essere completamente dipendente da lui, che dovrebbe essere grato anche solo di poter lavare l’insegnante.
La donna, probabilmente, guarda più in là di fantasiosi progetti di fuga, forse anche perché sa che difficilmente troverebbe il suo posto in una società caotica, frenetica e in parte snaturata come quella da cui proviene l’uomo.
La donna è la tradizione, gli usi tramandati nel tempo, la saggezza che, guardando l’uomo alle prese con la trappola per corvi, non può fare a meno di pensare “che gli uomini sono degli esseri incapaci di campare senza passatemi, ed era felice che il suo uomo si accontentasse di tanto poco“.