Planimetria di una famiglia felice di Lia Piano edito da Bompiani
In dieci anni erano riusciti a cambiare tre nazioni, festeggiando ogni trasloco con un figlio, a quel punto avevano comprato una casa vicino Genova e si erano imbarcati nell’impresa più difficile: diventare una famiglia normale.
La maestra mi aveva spiegato che i libri sono stati un tempo alberi, che la cellulosa proviene dal legno. Anche questo non era del tutto vero: i libri erano ancora alberi, dove li posavi mettevano radici. Se c’erano i libri significava che quella era casa. Finalmente ci eravamo fermati.
Un romanzo di esordio il suo, divertentissimo, intelligente e un po’ magico. Tutte le famiglie felici si somigliano?
Il babbo sa disegnare il mondo, sfida la forza di gravità e costruisce una barca a vela nel seminterrato. La mamma è bellissima, ha i tacchi alti e ancor più alte pile di libri intorno a sé. Maria, la bambinaia, parla in calabrese stretto, non sa leggere e ha un cuore più grande dell’enorme giardino che circonda la casa. I ragazzi sono tre: Marco, alle prese coi primi turbamenti della pubertà, Gioele, afflitto da un’incoercibile balbuzie e da una pericolosa passione per la chimica, e la Nana, che dal basso dei suoi sei anni osserva e racconta. E poi c’è lei: la villa abbarbicata sulla collina sopra Genova dove la famiglia è appena approdata per provare, forse, a diventare normale. Certo, bisognerebbe disperdere la folla di animali di ogni tipo che ritengono di aver diritto di cittadinanza tra quelle mura. Chiudere le porte per impedire che il vento circoli senza tregua per le stanze. Evitare di dormire tutti per terra in salotto solo per godere della luna piena attraverso le vetrate… O forse è proprio questa la planimetria di una famiglia felice? Aprire questo romanzo è come entrare nella grande casa dove è possibile un’infanzia incantata. Poi l’incanto finisce, tutti lo sappiamo: ma qualcuno ha il dono di rimanere in contatto profondo con quella prima luce.
L’esordio nella narrativa di Lia Piano proprio per la sicurezza con cui mescola memoria ed invenzione, evitando ogni facile nostalgia attraverso la leggerezza. Lo humour che percorre queste pagine è come un gas sottile, che circonda anche le cose difficili e le solleva dal pavimento e dal cuore, per farle volare in una dimensione dove sorridere, e sorridere di sé, è salvifico e magicamente contagioso.
La scrittrice Lia Piano
Nasce a Genova nel 1972, terza di tre fratelli che poi diventeranno quattro. Laureata in lettere dal 2004 si occupa della Fondazione Renzo Piano. Oggi vive e lavora in moto perpetuo tra Parigi, Genova e qualsiasi altro luogo del mondo. In attesa di radicare, ha scritto il suo primo libro.
Aprire questo romanzo è come entrare nella grande casa dove è possibile un’infanzia incantata. E se hai vissuto lì anche solo un giorno, nessuno potrà rubarti la tua riserva di felicità quando la vita si fa dura.
Da bambina, ad esempio, io non soggiacevo alle leggi naturali. Mio padre era contrarissimo alla forza di gravità e mal sopportava che io toccassi terra. Se mi incrociava che camminavo per casa aveva un subitaneo moto di fastidio, mi sollevava e distrattamente, senza smettere di camminare, mi depositava nel punto più alto della stanza. Su una mensola, in cima a una scala, sopra il frigo. Io restavo lì il tempo necessario perché passasse qualcun altro e altrettanto distrattamente mi tirasse giù. Spesso pochi minuti, a volte ore. Se andava troppo per le lunghe Pippo andava a chiamare Maria, che si piazzava sotto spalancava le braccia e mi diceva: “Zumpa Grillu”. E io le atterravo con la faccia nella scollatura, dove lei mi lasciava un po’ di più del necessario, aggiustandomi il cappellino portabandiera. A volte invece mio padre non trovava una superficie adatta, allora mi prendeva sulle spalle e proseguiva per i suoi affari, dimenticandosi dopo poco della mia presenza. Di colpo la mia altezza passava da un metro scarso a due e mezzo, e la casa iniziava a corrermi incontro a doppia velocità. Nei pomeriggi sulle spalle di mio padre le stanze si trasformavano in una girandola di linee di fuga, di prospettive di cui non vedevo la fine. Il soffitto del salone mi pioveva addosso. Anche gli oggetti erano nuovi e diversi, visti attraverso le spirali di fumo che salivano dalla pipa.