La recensione del libro in lettura di novembre per Parole dall’Oriente questa volta è tutt’altro che facile. Babel. Una storia arcana di R. F. Kuang, tradotto da Giovanna Scocchera e pubblicato da Mondadori, mi ha lasciata piena di emozioni contrastanti.
Prima di passare a parlare del romanzo, però, come sempre diciamo due parole sulla scrittrice. Nata in Cina, ma trasferitasi ancora bambina negli Stati Uniti con la famiglia, R. F. Kuang è una nota autrice di fantasy.
Tra i suoi titolo più noti, oltre a Babel – il cui sottotitolo, in inglese è or the Necessity of Violence – troviamo la trilogia de La guerra dei papaveri. Nei suoi romanzi si notano spesso riferimenti alla cultura cinese o alle esperienze di vita vissute da lei in prima persona o dalla sua famiglia. Ad esempio, non solo ha ambientato il romanzo di cui stiamo per parlare a Oxford, ma ha vissuto lei stessa nella città inglese durante gli anni della laurea magistrale.
A fare scalpore, però, non sono soltanto le sue storie fantasy, ma anche Yellowface, romanzo per ora solo in lingua inglese, in cui, facendo buon uso di una sagace ironia e di una buona dose di black humor, R. F. Kuang intesse un giallo all’interno di una casa editrice.
Ecco qualche assaggio di trama (davvero piccolo, promesso)
Tutto inizia con un’epidemia. Un’epidemia che devasta Canton, che prende centinaia e centinaia di vite, e che lascia un bambino solo al mondo, accoccolato al cadavere ancora caldo della madre, in attesa che giunga anche la sua ora. Tuttavia, proprio quando i suoi occhi stanno per chiudersi per l’ultima volta, un uomo lo salva, facendo uso di quella che pare quasi magia.
Il bambino, ora di nuovo miracolosamente in salute, è messo di fronte a una scelta: rimanere a Canton, sebbene nessun membro della sua famiglia sia ancora in vita, o salpare per l’Inghilterra insieme al professor Lovell – l’uomo che l’ha salvato – dove lo aspetterà un’intensa preparazione volta a un solo scopo: entrare a Babel, la più prestigiosa scuola di traduzione del mondo.
La scelta è tragicamente semplice e, con una semplice firma, il bambino diventa Robin Swift.
Babel. Una storia arcana di R. F. Kuang: la mia recensione
Perchè Babel mi ha straziato, fatto piangere, arrabbiare, emozionare, riflettere, ma ho anche fatto un’enorme fatica a entrare nel flusso del racconto. Ed è l’unico punto negativo che questo romanzo ha, a mio parere.
Però, purtroppo, si ratta anche di uno degli aspetti principali della lettura: una storia può essere bellissima, ma se il modo in cui è raccontata non cattura, tutto crolla. Tuttavia, non escludo che questa impressione possa essere legata – e probabilmente è così – al momento in cui ho letto questo libro, e che riprendendolo in mano tra qualche mese, lo stile non mi sembrerà più troppo pregno, ma perfettamente adatto alla storia (credo che almeno una volta capiti a tutti di cambiare opinione su un libro letto in passato).
Ora che l’unico aspetto che mi ha lasciato perplessa del romanzo è uscito dal cilindro, è il momento di passare a parlare di tutti i pregi del libro. Primo tra tutti, l’intenso discorso sulla traduzione che viene affrontato dal protagonista durante le sue lezioni a Babel. Com’è più giusto tradurre? Meglio avvicinare il lettore al testo, o il testo al lettore? Con quanta libertà si possono riportare le parole originali dell’autore, prima di arrivare a tradire il testo originale, ammesso e non concesso che si possa parlare di tradimento?
Sono tutte domande molto attuali nel dibattito sulla traduzione tutt’ora in corso, e ritrovarle all’interno di questo romanzo mi ha davvero entusiasmato. Non si tratta di una storia di fiction semplicemente ambientata in un college, ma le lezioni sono parte integrande della narrazione della prima parte del romanzo.
Attraverso Robin – sensibile, a volte insicuro, ma pronto a tutto per proteggere coloro che ama – R. F. Kuang parla di temi che non si sentono spesso nominare, oppure non così chiaramente. Non è comune sapere che, spesso, il nome non cinese con cui le persone di origine cinese si presentano all’estero è un nome che hanno scelto perchè più facile da pronunciare per gli stranieri, e che il loro primo nome è, probabilmente, cinese (ovviamente ogni persona fa ciò che ritiene più giusto o che la fa sentire più a proprio agio, ma il senso generale della faccenda è questo).
Non tutti si fermano a riflettere sul fatto che anche l’omologazione culturale è un processo di colonizzazione, che scegliere un termine invece di un altro, soprattutto nella traduzione di trattati ufficiali, può portare a un mutamento di equilibro all’interno degli obblighi delle parti.
Ogni pagina del romanzo di R. F. Kuang fa riflettere, mette in luce in quanti luoghi e i quanti modi le ingiustizie imperversino ancora (perchè se stai pensando che queste cose accadevano solo nell’Ottocento, purtroppo non è così). Robin stesso mi è sembrato l’incarnazione del dilemma, con il suo desiderio profondo di trovare un posto a cui appartenere, delle persone da chiamare famiglia, pur tentando di non deludere l’uomo che gli ha indirettamente permesso d’incontrare Rami, Victoria e Letty, i suoi affetti più cari. Fino a quando la strada del compromesso non sarà più possibile.
Concludo quindi dicendo che Babel di R. F. Kuang è un romanzo che non solo trasporta all’interno delle intricate sfere della traduzione, ma che grazie a una storia ricca di colpi di scena e azione, permette al lettore di riflettere su temi attuali ma non sempre in prima pagina.