Mi sono approcciata a La collezionista di anime di Kylie Lee Baker – tradotto dall’inglese da Sofia Brizio e pubblicato da Fanucci editore – un po’ sul chi va là. Per quanto non potessi fare a meno di essere attirata dall’ambientazione fantasy, dai riferimenti mitologici e dal fatto che si prospettasse esserci una commistione di culture, quando si parta di Giappone non posso fare a meno di essere scettica.
Ciò è dovuto principalmente al fatto che, essendo una cultura così famosa e apprezzata anche all’estero, quella giapponese finisce per essere la base di molte storie anche scritte da autori che ne hanno una conoscenza parziale – e visto che al contrario alcune nozioni le ho, non posso fare a meno di notare discrepanze, se ci sono. Per fortuna, questo non è decisamente stato il caso di Kylie Lee Baker.
Cresciuta tra Salmanca, Seul e Atlanta, Kylie Lee Baker cerca di trasportare nel suo lavoro le influenze e le suggestioni derivanti dai suoi viaggi e dalle sue origini – è in parte cinese, irlandese e giapponese. Dopo una laurea in scrittura creativa e spagnolo, è passata allo studio presso la facoltà di scienze dell’informazione. La collezionista di anime è stato il suo romanzo d’esordio, seguito da L’imperatrice delle anime, secondo e conclusivo volume di questa dilogia.
Parliamo di trama
Per tutta la vita Ren è sempre stata certa di una cosa: lei non appartiene ai mietitori. Per quanto faccia il possibile per volare basso, per non farsi notare, per stare in disparte, qualcuno finisce sempre per fare di lei il proprio capro espiatorio. Non è poi così sorpresa, quindi, quando Ivy e le sue scagnozze la circondano, fermando il tempo e intrappolandola in una tortura lunga un’eternità.
Quella sera, però, qualcosa è diverso. Forse perchè la somma mietitrice decide di tagliare i capelli di Ren – così neri da identificarla subito come qualcuno di diverso, che non appartiene; ma anche così indissolubilmente suoi – o forse è la minaccia di attendere Neven, suo fratello e unico affetto a starle accanto, e riservare a lui lo stesso trattamento, fatto sta che il potere ribollente, incandescente e così pericoloso da essere nascosto a tutti i costi si manifesta, ferendo i membri più intoccabili tra i mietitori.
A Ren non rimane altro che fuggire più in fretta che può, fare i bagli e partire, lasciandosi per sempre alle spalle l’Inghilterra e le sue catacombe. Perchè non solo ha aggredito una diretta discendente di Ankou, il dio della morte inglese, ma ha anche rivelato di possedere un potere a cui nessun altro mietitore ha mai avuto accesso: quello di controllare le ombre. A cosa serve fermare il tempo, se chi si sta cercando è avvolto nelle tenebre? La meta possibile è una sola: il Paese di sua madre, l’unico posto al mondo in cui forse Ren non sarà la tessera diversa di un grande mosaico. Non le resta che salpare alla volta del Giappone.
La collezionista di anime di Kylie Lee Baker: la mia recensione
Lo stile di Kylie Lee Baker è molto scorrevole e accattivante, in grado di mantenere un buon ritmo di narrazione anche in un contesto come il fantasy, in cui, volente o nolente, c’è sempre un momento in cui la trama deve lasciare il posto alla descrizione del mondo fantastico in cui le vicende si svolgono.
In questo caso, ho trovato la rielaborazione di elementi mitologici estremamente interessante e perfettamente amalgamata al contesto ottocentesco londinese (non guasta il fatto che ogni volta che veniva nominato un orologio da taschino la mia mente volava direttamente a L’orologiaio di Filigree Street di Natasha Pulley).
Ho davvero apprezzato anche la descrizione e la caratterizzazione che l’autrice ha dato del Giappone di fine Ottocento – completamente diverso da com’è ora, ovviamente. Il fatto che sia Ren che Neven non conoscano praticamente nulla della loro meta, mette Kylie Lee Baker nella posizione di soddisfare la curiosità del lettore, nonché di chiarire in modo naturale quei particolari tipicamente giapponesi che potrebbero altrimenti risultare difficilmente comprensibili.
La descrizione che Kylie Lee Baker dà di Yomi e della sua completa oscurità mi ha affascinato, e ho gradito che siano stati citati yōkai – spiriti del folclore giapponese – e divinità non sempre conosciuti.
Ciò che però mi ha fatto davvero commuovere e riflettere è il tema che fa da filo conduttore a tutta questa prima parte della storia di Ren, narrata da Kylie Lee Baker. Non il suo carattere battagliero, non il suo compiere scelte che possono essere viste anche come crudeli o egoiste, ma che hanno lo scopo di garantire la sopravvivenza, ma il desiderio di essere accettata, di trovare un luogo a cui appartenere. Ren trascorre i primi duecento anni della sua vita sentendosi chiamare meticcia, subendo angherie e soprusi perchè le sue origini non sono le stesse di tutti gli altri. Quando è messa alle strette, decide di fare migliaia e migliaia di chilometri verso l’ignoto, piuttosto che rimanere ancora nel luogo in cui è cresciuta, ma che non è mai stato la sua casa.
Tuttavia, come spesso accade, si rende conto solamente una volta giunta a destinazione che il Giappone non è il Paese che si aspettava; che lei e Neven danno estremamente dell’occhio, e che anche qui il suo volto sembra distinguersi nella folla – esattamente il contrario di qualcosa di “normale, comune”, per quanto questi concetti si possano applicare a delle persone.
Per concludere, direi che La collezionista di anime di Kylie Lee Baker è un libro assolutamente da leggere per gli amanti del fantasy e della mitologia, per chi desidera una storia avvincente e non scontata e per chi desidera leggere di una protagonista alla spasmodica ricerca di se stessa e del suo posto del mondo. Senza contare che l’edizione cartacea di Fanucci è proprio ben fatta: una cover curata, dettagli illustrati all’interno del libro e, soprattutto, continuità con il seguito, L’imperatrice delle anime.
La mia unica perplessità riguarda il titolo: Keeper of the Night è diventato La collezionista di anime che, per quanto non male, credo che trasmetta una sfumatura diversa dalla storia, quasi come se Ren, o i mietitori in generale, raccogliessero le anime per un qualche tornaconto, e non perchè è il loro compito. A mio parere, e per la mia sensibilità linguistica – che è appunto personale e quindi anche non condivisibile – il termine “custode” sarebbe potuto essere una valida alternativa.