Oggi, per Libri dalla Storia, vorrei parlare di uno dei grandi poemi medioevali che tutti siamo soliti trattate (o seguire con sofferenza la lezione che ne tratta) tra i banchi di scuola, ma che può nascondere ancora molte, molte sorprese: l’Orlando furioso, dalla fine penna di Ludovico Ariosto.
Per raccontarti qualcosa in più sull’opera che ho scelto dobbiamo viaggiare fino alla corte del ducato di Ferrara, nel primo trentennio del Cinquecento. È qui che prese vita uno dei più grandi e bei poemi cavallereschi italiani.
Orlando furioso: genesi e curiosità
Tuttavia, mentre scriveva, l’autore non pensava solamente alla corte estense o alla nobiltà di Ferrara, no. Pochi anni prima, infatti, a Gutemberg, era stata inventata la stampa a caratteri mobili. Una scoperta straordinaria, che permise una diffusione delle letteratura fino ad allora inedita, molto al di là di confini territoriali o delle collezioni di ricchi nobili e monasteri.
Ed è con quest’evoluzione in mente che viene scritto l’Orlando furioso: vi è una profonda attenzione al linguaggio utilizzato; il lessico è stato scelto in modo da essere compreso da più genti possibili. E proprio a questo servono le successive riedizioni del poema – una nel 1521, sempre di quaranta canti, e l’ultima del 1532, in cui avviene una sistematica correzione linguistica e in cui i canti diventano quarantasette.
Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,
le cortesie, l’audaci imprese io canto,
che furo al tempo che passaro i Mori
d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto,
seguendo l’ire e i giovenil furori
d’Agramante lor re, che si diè vanto
di vendicar la morte di Troiano
sopra re Carlo imperator romano.
Un altro aspetto estremamente interessante dell’Orlando furioso, è la commistione di temi che si trova al suo interno. Scritto in pieno Umanesimo, in un’epoca di grande libertà di pensiero, in cui era possibile sconvolgere – alcuni – tratti della tradizione, Ariosto, e prima di lui Matteo Maria Boiardo, il cui Orlando Innamorato costituisce una sorta di prequel all’Orlando furioso, ha deciso di narrare una storia che si collocasse esattamente a metà tra i due filoni principali di poemi cavallereschi.
È un po’ come se avesse deciso di posizionarsi proprio sul confine, tenendo un piede nei componimenti del ciclo bretone e uno in quelli del ciclo carolingio. E quindi un personaggio come Orlando, braccio destro di Carlo Magno, che i cortigiani dell’epoca avevano conosciuto come integerrimo cavaliere, impegnato anima e corpo nella campagna contro i saraceni, ora si trova ad abbandonare tutto, pur di inseguire la donna di cui si è innamorato: Angelica. L’avventura prende una piega inaspettata, costellandosi di magia e misteri, al pari delle più grandi gesta dei Cavalieri della Tavola Rotonda.
Dirò d’Orlando in un medesmo tratto
cosa non detta in prosa mai né in rima:
che per amor venne in furore e matto,
d’uom che sí saggio era stimato prima;
se da colei che tal quasi m’ha fatto,
che ’l poco ingegno ad or ad or mi lima,
me ne sará però tanto concesso,
che mi basti a finir quanto ho promesso.
Una protagonista inaspettata: l’ironia
Non bisogna, poi, dimenticare un aspetto del poema che per secoli è stato volutamente ignorato, perchè visto come troppo sovversivo dell’autorità costituita: l’ironia. Ironia che permea ogni strofa di ogni canto, che l’autore rivolge ai suoi personaggi così come a se stesso. Un’ironia che permette di trattare temi spinosi, di mettere in ridicolo figure prima intoccabili. Un’ironia che consente ad Ariosto anche di invertire stereotipi di genere.
E così non possiamo che lasciarci sfuggire un sorriso, quando la giovane e forte Bradamante, paragonata addirittura a un lupo possente, sconfigge il campione saraceno Sacripante (se ti aspetti pochi e semplici nomi, mi dispiace deluderti, perchè ti aspetta esattamente il contrario).
O nella scena in cui Angelica (la principessa a cui metà uomini dell‘Orlando furioso danno la caccia) soccorre il nobile Sacripante, aiutandolo a rialzarsi dopo una rovinosa caduta da cavallo.
Ritroviamo l’ironia anche nel linguaggio con cui viene descritto Medoro, il pastore di cui Angelica si innamora e che grazie a lei diventerà re (esattamente l’opposto della fanciulla di umili origini che sposa il principe), tipicamente utilizzato nei confronti della donna angelo dello Stil novo.
Piacciavi, generosa Erculea prole,
ornamento e splendor del secol nostro,
Ippolito, aggradir questo che vuole
e darvi sol può l’umil servo vostro.
Quel ch’io vi debbo, posso di parole
pagare in parte e d’opera d’inchiostro;
né che poco io vi dia da imputar sono,
che quanto io posso dar, tutto vi dono.
Voi sentirete fra i piú degni eroi,
che nominar con laude m’apparecchio,
ricordar quel Ruggier, che fu di voi
e de’ vostri avi illustri il ceppo vecchio.
L’alto valore e’ chiari gesti suoi
vi farò udir, se voi mi date orecchio,
e vostri alti pensier cedino un poco,
sí che tra lor miei versi abbiano loco.
E con quest’ultima strofa si esplicano finalmente tutti e tre i temi che Ariosto tratta nell’Orlando furioso: la guerra tra cristiani e saraceni; l’amore di Orlando e la sua disperata ricerca di Angelica; e la nascita della famiglia di Ippolito d’Este, i cui capostipiti sarebbero proprio quel Ruggero e quella Bradamante di cui si parla nel poema (Ariosto non poteva non mettere in buona luce il suo datore di lavoro, no?).
Tuttavia, non credere che a intrecciarsi siano solamente queste trame. Quello di Ariosto è un mosaico complesso e variegato, costellato da una moltitudine di personaggi, ognuno con la propria impresa da compiere, il proprio desiderio da soddisfare. E l’autore guida ogni tessera esattamente al proprio posto, creando una rappresentazione meravigliosa e fantastica.
Questo, però, non è che un breve accenno all’Orlando furioso. Ci sarebbe da scrivere molto, molto di più sulla trama, sui protagonisti, sullo stile e sulle intenzioni dell’autore. Tuttavia, spero di essere riuscita a farti incuriosire e, chissà, a invogliarti a leggere l’intera opera (con calma eh, soprattutto perchè non è esattamente corta).