“Fra poco altre cose, e gli uomini, torneranno ad afferrarmi. Ma lasciatemi ritagliare questo minuto dalla stoffa del tempo, come altri lascerebbero un fiore fra le pagine per racchiudervi una passeggiata in cui li ha sfiorati l’amore. Anch’io passeggio, ma è un dio colui che mi accarezza. La vita è breve e perdere il proprio tempo è peccato. Io il mio tempo lo perdo continuamente, e gli altri mi credono estremamente attivo. Oggi, però, è una sosta, e il mio cuore muove incontro a se stesso“
Un pensiero preso dai “Taccuini“, mi pareva l’introduzione perfetta per cominciare a parlare di un grande letterato e filosofo, premio Nobel per la Letteratura nel 1957, ti sto presentando Albert Camus. Scrittore difficilmente annoverabile ad una specifica corrente letteraria, nasce il 7 novembre del 1913 a Mondovi in Algeria da una modesta famiglia di “pieds noirs” (francesi per cittadinanza, residenti nella colonia algerina), la madre completamente analfabeta si occupava di faccende domestiche presso famiglie facoltose, suo padre conosciuto solo in fotografia era operaio in una azienda agricola; lui nutriva da ragazzo una forte aberrazione per la sua condizione sociale, riferendosi proprio a questa, quando nei primi anni di studi all’Università scrive: “Fui posto tra la miseria ed il sole, ad uguale distanza. La miseria m’impedì di credere che tutto è bene sotto il sole e nella storia; il sole mi insegnò che la storia non è tutto” tratto da L’envers et l’endroit; il padre, Lucien Auguste Camus, muore durante la Prima Guerra Mondiale, nella battaglia della Marna nel 1914 servendo “un paese che non era suo“, come Camus annoterà nel suo ultimo lavoro Le premier homme, incompiuto a causa della prematura scomparsa dell’autore, morto per un banale incidente d’auto nel 1960. Resterà con la madre e la nonna; la severità di quest’ultima rivestirà un ruolo molto importante nell’educazione di Albert. E questo è il concetto che esprime a riguardo “Ciò che voglio dire: che è possibile – senza degenerazioni romantiche – provare nostalgia per una povertà perduta. Un certo numero d’anni miseramente vissuti è sufficiente a costruire una sensibilità. In questo caso particolare quel curioso sentimento che il figlio prova nei confronti della madre costituisce tutta la sua sensibilità“. Trasferitosi ad Algeri per studiare, la tubercolosi, considerata una malattia inguaribile, lo colpirà giovanissimo nel 1930 quando ha 17 anni, impedendogli di continuare a frequentare i corsi e di giocare a calcio, sport nel quale aveva il ruolo di portiere nella squadra, tanto amata, del Racing universitario di Algeri, oltre ad impedire la sua passione di attore teatrale. Finisce gli studi da privatista laureandosi in filosofia nel 1936 con una tesi su Plotino e Sant’Agostino. Resterà legato tutta la vita al suo professore di filosofia Jean Grenier, il quale lo inviterà alla lettura de Il dolore (La Douleur) di André de Richaud, opera che lo spingerà a intraprendere l’attività di scrittore.
Albert Camus poliedrico: scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo, giornalista ed attivista politico; è proprio sulle sue attività politiche che dobbiamo concentrarci per capire quale ruolo abbiano rivestito ai fini delle sue opere letterarie, intrise da quella filosofia costante sull’assurdo. Testimone di una delle epoche più travagliate della storia contemporanea, è stato senza ombra di dubbio fautore nel descrivere e comprendere la tragicità di quegli stessi eventi, parliamo di un periodo che va dall’ascesa dei totalitarismi al secondo dopoguerra e al concomitante inizio della guerra fredda. Non solo: le sue riflessioni filosofiche, magistralmente espresse nella sua letteratura, hanno una valenza universale e atemporale capace di oltrepassare i meri confini della contingenza storica, riuscendo a descrivere la condizione umana nel suo nucleo più essenziale.
Quindi, razionalizzando, possiamo affermare che Albert Camus è un intellettuale rivoluzionario con un’etica politica ben definita oserei dire che, con i suoi scritti, ha dichiarato guerra a tutti i movimenti politici, anche se inizialmente ha aderito al partito comunista individuò da subito nella ideologia la sua bugia, è stato espulso dal Partito perché ne ha denunciato la deriva stalinista. La pubblicazione del suo L’uomo in rivolta fu considerato da tutta la frangia comunista un libro da bruciare, mentre al suo autore andava il disprezzo di tutto il mondo progressista.
Mosse critiche contro il comunismo marxista che prima aveva sostenuto, diventando in seguito anarchico; anche contro il fascismo e il capitalismo occidentale, prendendo posizione su ideologie espresse da Stirner e Nietzsche che gli valsero l’isolamento intellettuale in particolar modo per aver espresso opinioni negative sul blocco sovietico. Da qui anche la sua rottura con Sartre.
Mai avrei pensato che parlare di Camus si sarebbe rivelata un’impresa così ardua!
Ha intriso il mondo letterario, politico e filosofico con le sue ideologie, tramandate fino ai nostri giorni; per il suo poco vissuto, immaginiamo cosa avrebbe combinato se il fato lo avesse graziato da un destino così effimero!
Il lascito dei suoi scritti è immenso, ci vorrebbero pagine e pagine per parlarne dettagliatamente, mi soffermerò solo sull’opera con cui ha profondamente marcato la sua epoca e che con il suo pensiero continua oggi più che mai ad avere tanta valenza.
Lo straniero
Forse il libro più conosciuto, pubblicato nel 1942 dalla casa editrice Gallimard, considerato dal giornale francese Le Monde miglior romanzo del XX secolo, inoltre da esso è stato tratto l’omonimo film di Luchino Visconti, che vede Marcello Mastroianni rivestire il ruolo del protagonista Meursault. Il romanzo narra le vicende di un impiegato algerino, il quale si ritrova dopo una serie di circostanze e senza una volontà precisa, a commettere un omicidio su una spiaggia, colpendo un arabo e uccidendolo per poi continuare a sparare, dopo qualche secondo di attesa, altre tre volte sul suo corpo inerte. Ma al contrario di ogni pensiero razionale volto alla propria difesa, lui accetta la condanna andando incontro al suo destino senza opporre resistenza incarnando perfettamente il prototipo dell’eroe dell’assurdo. Ossia un uomo che non si sforza di contrastare la realtà, ma l’accetta per quella che è, nell’incomprensione più totale. Tanto è vero che neppure al momento della sua esecuzione, non si lascia prendere dalla paura rimanendo calmo: “Come se quella grande ira mi avesse purgato dal male, liberato dalla speranza, davanti a quella notte carica di segni e di stelle, mi aprivo per la prima volta alla totale indifferenza del mondo. Nel trovarlo così simile a me, finalmente così fraterno, ho sentito che ero stato felice, che lo ero ancora“.
Caro iCrewer questa devo proprio raccontartela: è stato il romanzo che mi è capitato per le mani quando avevo soli 13 anni e mi ha fatto conoscere quest’autore che ho tanto amato e tanto disprezzato, mi ha sconvolta e non poco il fatto che davanti alla morte della madre non provasse alcun tipo di sentimento, rifiuta persino di vederla, preferendo bere un caffè e fumarsi una sigaretta vicino alla bara, era la madre! Invece a me era da poco morta mia nonna materna, e prova ad immaginare il grande dolore che questa perdita ha suscitato in tutta la famiglia, mi sono interrogata sulla morte e sul suo mistero, ma senza per questo rinnegare l’esistenza di Dio e a credere nell’assurdo!
Il mito di Sisifo
Ti ricordi il Mito di Sisifo? Ebbene Sisifo è condannato a far rotolare eternamente un masso su una collina il quale una volta giunto in cima ricadrà sempre e poi sempre a valle! (Odissea canto XI)
Il Mito di Sisifo quindi è un testo nel mezzo tra il saggio filosofico, tema sempre incentrato sull’assurdo, e la critica letteraria.
“Se vi è un destino personale, non esiste un fato superiore o, almeno, ve n’è soltanto uno, che l’uomo giudica fatale e disprezzabile. Per il resto, egli sa di essere il padrone dei propri giorni. In questo sottile momento, in cui l’uomo ritorna verso la propria vita, nuovo Sisifo che torna al suo macigno, nella graduale e lenta discesa, contempla la serie di azioni senza legame, che sono divenute il suo destino, da lui stesso creato, riunito sotto lo sguardo della memoria e presto suggellato dalla morte. Così, persuaso dell’origine esclusivamente umana di tutto ciò che è umano, cieco che desidera vedere e che sa che la notte non ha fine, egli è sempre in cammino. Il macigno rotola ancora. Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova sempre il proprio fardello. Ma Sisifo insegna la fedeltà superiore, che nega gli dei e solleva i macigni. Anch’egli giudica che tutto sia bene. Questo universo, ormai senza padrone, non gli appare sterile né futile. Ogni granello di quella pietra, ogni bagliore minerale di quella montagna, ammantata di notte, formano, da soli, un mondo. Anche la lotta verso la cima basta a riempire il cuore di un uomo. Bisogna immaginare Sisifo felice.”
L’assurdo riconducibile all’esistenza, quindi privata del significato, che diventa irrazionale ed estranea a noi stessi, quindi non resta che il suicidio, ma quello fisico non risolve il problema del senso – “Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta.” – mentre quello spirituale allontana dal vero problema. Dunque la soluzione per Camus è la sopportazione della propria presenza nel mondo che consente di essere liberi, protestare ed essere ribelli nei confronti dell’assurda esistenza contro il destino.
La Peste
La Peste è un romanzo pubblicato nel 1947, un’opera che appena edita riscosse un grande successo vendendo oltre 160 milioni di copie ottenendo così il prestigioso premio letterario Prix des Critiques. La peste rientra nella produzione di Camus definita “Ciclo della rivolta“. La peste è una metafora del Male in generale e del nazismo nello specifico. Ambientato in Ageria nella città di Orano in un imprecisato periodo degli anni 40 “un giorno d’aprile 194…” Il protagonista è un medico francese Bernard Rieux, residente ad Orano, il romanzo è una cronistoria scritta in terza persona da Rieux stesso, avvalendosi dei taccuini scritti dal giovanissimo amico Jean Tarrou co-protagonista. Tutto ha inizio con il medico che accompagna la moglie gravemente malata alla stazione dei treni per recarsi in una località indefinita per curarsi, poco dopo scoppia una moria di ratti, gli animali in questione vengono ritrovati a migliaia in ogni angolo della città, ma il bello è che nessuno vi presta la benché minima attenzione, in realtà è l’avvisaglia che si sta per scatenare una grande epidemia di peste bubbonica. Come si comporteranno gli abitanti? Reagendo ognuno a modo proprio: alcuni non rinunceranno ai piaceri della vita di ogni giorno, i bar e i ristoranti resteranno aperti, mentre a teatro viene riproposta di continuo la rappresentazione di un gruppo di attori rimasti bloccati dal cordone sanitario. Altri, invece, si barricheranno in casa temendo di essere contagiati.
L’epilogo della Peste è che: se anche sembra essere scemata e sotto controllo, sarà anche se latente sempre pronta ad esplodere, resta una minaccia! Riferimento assolutamente non casuale ma volto al nazismo appena sconfitto!
Termino con una frase evocativa in cui è estrapolato tutto il suo pensiero, estratta dal romanzo La Peste “Il gran desiderio d’un cuore inquieto è di possedere interminabilmente la creatura che ama, o di poterla immergere, quando sia venuto il tempo dell’assenza, in un sonno senza sogni che non possa aver termine che col giorno del ricongiungimento.”