Nadja Anjuman nata ad Herat, nota come “la città dei poeti”, nel 1980 dove è morta a soli 25 anni, è stata una poetessa afghana, una delle poche voci femminili riuscita, a caro prezzo, a farsi sentire dal resto mondo bucando quella densa cortina di integralismo religioso che opprime ancora e oggi più che mai, l’universo femminile di quel disgraziato paese.
Nascere donna in Afghanistan è già, nella maggioranza dei casi, un grave deterrente. Nascere donna e coltivare la poesia può rappresentare un vero e proprio grande problema: è successo così a Nadia Anjuman. Nata donna e con il vizio di scrivere, fu massacrata di botte dal marito solo per aver avuto l’ardire di declamare i suoi versi in pubblico. E non stiamo di certo parlando di gente senza cultura, che spesso ha più sensibilità e apertura mentale di chi ha posti di rilievo all’interno della vita civile, tutt’altro.
Il marito non ha esitato a massacrarla di botte pur di far tacere la sua voce e non è servita a nulla la sua ottima cultura e la posizione di ricercatore universitario. Un’atavica educazione al comando, alla sopraffazione e alla supremazia maschile, continuano a conservare in Afghanistan quei rigidi principi dell’integralismo islamico che relegano una donna ad un ruolo di assoluta sottomissione all’uomo, sia esso marito, padre, fratello o più generalmente parente.
Eppure Nadia Anjuman voleva solo parlare d’amore
I versi incriminati, i suoi ghazal, quelli considerati scandalosi tanto da scatenare l’ira furibonda di un marito-padrone-integralista, sono tratti dalla raccolta Gul-e-dodi, Fiore rosso scuro, versi di certo non erotici ma semplicemente impregnati di quella vena di triste malinconia derivata dalla tradizione poetica persiana.
Versi scritti per anni di nascosto, prima del matrimonio, da una Nadia ancora ragazza che sognava, amava e frequentava la letteratura e la poesia come unica via di fuga da una realtà angusta e soffocante per il genere femminile. Versi che hanno scatenato la furia e la violenza di chi avrebbe dovuto amarla e custodirla.
Nacqui a Herat negli anni più agghiaccianti della rivoluzione; portai a termine i miei studi in anticipo, di due anni, nella scuola superiore “Mahbubeh haravi”.Attualmente frequento il secondo anno della facoltà di Letterature e Scienze Umanistiche dell’Università di Herat.Da quando ho memoria di me so di aver amato la poesia.L’amore per la poesia e le catene di sei anni di schiavitù dell’era dei Talebani, che mi avevano legato le gambe, hanno fatto sì che appoggiandomi alla penna e zoppicando, componessi passi ed entrassi nel territorio della poesia.Il sostegno dei miei amici e di coloro che condividevano i miei stessi orizzonti mi hanno permesso di continuare su questo sentiero, ma… ahimè… tuttora, ogniqualvolta che compongo un nuovo passo, sento il tremore della mia penna e con essa trema anche la mia anima.Forse perché non mi sento indenne, temo ancora di sdrucciolarmi lungo il percorso; è difficile la strada che ho davanti a me ed i miei passi non sono ancora, abbastanza, fermi.
Nadia Anjuman la poesia come denuncia
E chissà quante altre donne come Nadia Anjuman continuano ad essere vittime di una mentalità integralista che rifiuta di aprirsi perché l’interesse di pochi vince sull’ignoranza di molti.
Non ho voglia di aprire la bocca
di che cosa devo parlare?
che voglia o no, sono un’emarginata
come posso parlare del miele se porto il veleno in gola?
cosa devo piangere, cosa ridere,
cosa morire, cosa vivere?
io, in un angolo della prigione
lutto e rimpianto
io, nata invano con tutto l’amore in bocca.
Lo so, mio cuore, c’è stata la primavera e tempi di gioia
con le ali spezzate non posso volare
da tempo sto in silenzio, ma le canzoni non ho dimenticato
anche se il cuore non può che parlare del lutto
nella speranza di spezzare la gabbia, un giorno
libera da umiliazioni ed ebbra di canti
non sono il fragile pioppo che trema nell’aria
sono una figlia afgana, con il diritto di urlare.
Quanto dolore e quanta triste consapevolezza, per una condizione di assurda subalternità assolutamente anacronistica, si leggono in questi versi! Quanta sofferenza strozza la voce e il canto di una donna che può solo usare parole che, come sferze, bruciano come fuoco sulla sensibilità di chi legge ma può solo empaticamente solidarizzare con lei e con le donne afghane. Il diritto di gridare, questo il titolo del brano di Nadia Anjuman proposto sopra, è una dolorosa denuncia per una condizione che non accenna al cambiamento. Anzi.
Herat, la città dei poeti ha un triste primato: la più alta percentuale di suicidi femminili. Le donne usano il suicidio o la poesia per opporsi ad un sistema tribale che le vede sottomesse al pari delle bestie…
Così leggo e riporto e mi chiedo se noi, fortunati figli e figlie di una civiltà occidentale che non conosce le gabbie religiose o le ha superate da tempo immemore, siamo in pace con la nostra coscienza, sapendo che una larga fetta di umanità vive ancora gabbie e bavagli ed è mortificata nelle sue legittime aspettative di libertà?