Oggi ci troviamo in una realtà complessa, interconnessa, che ci permette di rimanere costantemente aggiornati su ciò che accade anche molto lontano da noi, e di comunicare con persone che si trovano dall’altro capo del mondo. Ma allora come mai non ci siamo mai sentiti così smarriti e isolati?
Sorprendentemente una descrizione di questa realtà ce la fornisce Platone nel suo mito della caverna, scritto più di duemila anni fa. In questo appuntamento domenicale con il mondo della filosofia voglio dunque proporvi una riflessione che parta da questo famosissimo mito, fino ad arrivare ai nostri giorni. Se ti ho incuriosito, allora mettiti comodo e goditi il resto!
Il mito della caverna

C’era una volta, nel cuore della filosofia antica, un mito capace di parlare a ogni epoca. È il celebre mito della caverna, narrato da Platone nel settimo libro della Repubblica, scritto tra 380 e 370 a.C. e considerato oggi uno dei testi più importanti del pensiero occidentale.
Immaginiamo degli uomini incatenati sin dalla nascita in una caverna sotterranea, costretti a guardare soltanto una parete. Alle loro spalle, un fuoco proietta le ombre degli oggetti che altri uomini trasportano dietro un muro. Per gli incatenati, quelle ombre sono l’unica realtà conosciuta. Non sanno che esiste un mondo là fuori, illuminato dal sole, ricco di forme autentiche, non deformate. Se uno di loro venisse liberato, all’inizio soffrirebbe: la luce lo accecherebbe, la verità lo ferirebbe. Ma poi imparerebbe a vedere. E, tornato nella caverna per salvare gli altri, verrebbe deriso, forse aggredito. Troppo distante dalla comoda illusione che tutti condividono.
Le interpretazioni del mito della caverna sono state e sono tuttora tantissime. Questo mito era strettamente connesso con la teoria delle idee di Platone, secondo cui il mondo materiale, come la caverna, non è che una pallida imitazione del mondo delle Idee, l’unico reale e verso cui doveva tendere ogni uomo. Ma come può un mito così antico essere ancora attuale? Cosa può dirci oggi il mito della caverna?
A oltre duemila anni di distanza, l’immagine è più viva che mai. Ma la caverna ha cambiato volto. Non è più fatta di pietra e ombra, ma di pixel e notifiche. Le catene sono algoritmi invisibili, che ci mostrano un flusso continuo di contenuti apparentemente selezionati per noi. Siamo ancora spettatori immobili, spesso inconsapevoli. Lì, nel tepore di un’informazione che conferma le nostre opinioni, siamo protetti ma anche ingannati. Chi ci mostra la verità, oggi come allora, rischia l’incomprensione. Ma chi rifiuta di uscire, rinuncia a vivere pienamente.
Il paragone non è solo suggestivo. Il filosofo francese Jean Baudrillard, ad esempio, ha parlato di simulacro, cioè della sostituzione del reale con la sua copia, fino al punto in cui la copia diventa più reale del reale stesso. È il mondo in cui viviamo oggi: dove il filtro Instagram conta più del volto, dove l’indignazione è un gesto da tastiera e l’esperienza si riduce allo scroll infinito. Per Baudrillard, siamo entrati in una fase storica in cui la realtà è stata interamente assorbita dalla rappresentazione. Proprio come gli uomini incatenati nella caverna, guardiamo ombre e crediamo che siano tutto.
Anche Guy Debord, nel suo libro La società dello spettacolo, aveva intuito la stessa deriva: la vita trasformata in rappresentazione, il cittadino in spettatore. Lo spettacolo non è più solo quello che si guarda, ma è il modo in cui la realtà si costruisce: per immagini, per consumo, per intrattenimento. E se allora il fuoco che proiettava le ombre era uno strumento di potere e di ignoranza, oggi la luce dello schermo ci ipnotizza allo stesso modo. Ci seduce, ci semplifica la vita, ci tiene lì.
Come uscire dalla caverna?
Ma allora, cosa significa davvero “uscire dalla caverna” nel XXI secolo? Significa, come voleva Platone, educarsi alla realtà. Non una realtà oggettiva e semplice, ma una realtà più piena, che tenga conto della complessità. Significa rieducare lo sguardo, coltivare il dubbio, farsi domande. Significa, per dirla con Heidegger, “abbandonare l’oblio dell’essere” e ritrovare l’autenticità. In un mondo che ci distrae, la vera resistenza è l’attenzione.
Certo, Platone credeva che solo pochi eletti potessero liberarsi dalle catene. Ma oggi, in un mondo democratico e iperconnesso, la sfida è comune. E qui può aiutarci Simone Weil, che vedeva nell’attenzione l’atto più puro dello spirito. Secondo la filosofa francese, educare l’anima significa imparare ad ascoltare, a vedere, a non reagire immediatamente. Un pensiero prezioso nell’epoca dei commenti impulsivi e della gratificazione istantanea.
Non si tratta, però, di demonizzare la tecnologia. Anche nella caverna di Platone, non era il fuoco in sé il problema, ma il suo uso. Così oggi, lo schermo può essere specchio o prigione, strumento di ricerca o di distrazione. Tutto dipende da come lo abitiamo. E soprattutto, da quanto siamo disposti a mettere in discussione ciò che vediamo.
Forse non esiste una verità assoluta fuori dalla caverna, ma esiste un modo più libero di guardare. Un modo che non si accontenta delle ombre, che non si ferma alla prima immagine, che chiede: “Cosa c’è dietro?”. Ogni volta che ci poniamo questa domanda, ogni volta che dubitiamo di ciò che ci viene servito pronto, ogni volta che cerchiamo un’esperienza più vera, compiamo quel piccolo gesto platonico: ci giriamo, scrutiamo, ci avviciniamo all’uscita.
E anche se la luce fa male agli occhi, anche se la verità è scomoda, vale la pena tentare. Perché, come scrive Platone: “L’educazione non è mettere la vista dentro a chi non vede, ma girare tutta l’anima verso ciò che vuole apparire nella luce”. E forse oggi più che mai, abbiamo bisogno di girare l’anima.