Dopo la condanna di Alessia Pifferi all’ergastolo accusata della morte della figlia, sorge spontanea la domanda: cosa si nasconde nella mente della madri assassine? Una domanda complessa a cui è impossibile dare una risposta lineare e semplice, ma la letteratura e la psicologia ci può insegnare tanto.
L’immagine di una madre che uccide il proprio figlio è qualcosa di innatamente sconvolgente, un atto che sfida la nostra stessa concezione di maternità e amore incondizionato. Eppure, la realtà, seppur rara, è purtroppo presente.
Le madri assassine e la Sindrome di Medea
Le donne che compiono questo terribile gesto vengono spesso etichettate come mostri o malate mentali, ma la realtà è ben più complessa. Spesso alla base di questi crimini ci sono storie di profonda sofferenza, traumi e disperazione.
Un caso emblematico è quello della Sindrome di Medea, dal mito greco di Medea che uccise i suoi figli per vendetta contro il marito Giasone. Questa sindrome descrive una situazione in cui una madre, spinta da rabbia, dolore e senso di impotenza verso il partner, uccide i figli come atto estremo di vendetta o per “risparmiare loro una vita di sofferenza”.
Le motivazioni: un intricato puzzle psicologico
Le motivazioni che spingono una madre a uccidere il proprio figlio sono spesso complesse e intrecciate. Tra i fattori più comuni troviamo le malattie mentali, la violenza domestica, traumi infantili non risolti, perdita della stabilità economica o perdita di un caro.
Malattie mentali: Disturbi come la depressione post-partum, la psicosi o il disturbo bipolare possono portare a una distorsione della realtà e a pensieri suicidi o omicidi.
Violenza domestica: Donne che subiscono abusi fisici o psicologici dal partner possono trovarsi in una situazione di totale disperazione e mancanza di controllo, vedendo nell’omicidio dei figli l’unica via d’uscita.
Traumi infantili: Esperienze di abuso o negligenza durante l’infanzia possono avere un impatto profondo sulla psiche di una donna, rendendola più vulnerabile a sviluppare problemi mentali e comportamenti autodistruttivi.
Problemi economici e sociali: Crescenti difficoltà economiche, mancanza di supporto sociale e isolamento possono aumentare il senso di stress e disperazione, portando a decisioni estreme.
Perdita del lavoro o di un caro: Eventi traumatici come la perdita del lavoro o la morte di una persona cara possono scatenare una crisi emotiva tale da offuscare il giudizio e portare a gesti inconsapevoli.
Le madri assassine: uno sguardo nel passato per comprendere il presente
Cercare esempi di madri assassine nella storia non è solo un macabro esercizio, ma un modo per comprendere meglio questo fenomeno complesso e le sue motivazioni profonde. Attraverso le vicende di queste donne possiamo scorgere la fragilità della psiche umana e l’impatto devastante di eventi drammatici.
La prima figura a cui possiamo fare riferimento è proprio Medea, emblema della madre assassina, che affonda le sue radici nella mitologia greca. La sua storia, seppur leggendaria, rispecchia un tema ricorrente: la donna spinta all’omicidio dei figli per rabbia, dolore e disperazione.
L’infanticidio, soprattutto di neonati di sesso femminile, era una pratica diffusa in alcune società antiche, come Grecia, Roma e Cina. Spesso motivato da povertà, norme sociali o infantili deformi, questo atto veniva spesso compiuto dalle madri stesse, rassegnate o costrette a sopprimere la vita dei loro figli.
Nel XIX secolo, il fenomeno del “baby farming” era tristemente diffuso in Europa e negli Stati Uniti. Donne, spesso indigenti e sole, affidavano i propri figli a balie a pagamento, ricevendo in cambio cifre irrisorie. Le condizioni di queste strutture erano spesso orribili, con mortalità infantile altissima e casi di abusi e infanticidi.
Madri assassine nell’era moderna
Anche nell’era moderna, purtroppo, non mancano esempi di madri che hanno ucciso i propri figli. Le loro storie sono spesso legate a drammi personali, come violenze domestiche, malattie mentali, depressione post-partum o situazioni di estrema difficoltà socio-economica.
Tra il 2020 e il 2023, sono stati 535 i casi in cui sono stati uccisi i figli, con oltre il 50% dei casi per mano delle madri. Dal 2000 al 2013 sono stati 340 i minori uccisi, mentre il 2014 è stato l’anno nero, con 39 figlicidi, seguito dal 2018 con 33. E dal 2020 al 203 ne sono stati segnalati 32.
Per approfondire meglio il triste tema, vi suggerisco la lettura di L’amore assassino. Storie di madri che uccidono, di Rosella Simone ed Ermanno Gallo, Edizioni PIEMME, del 2008.
C’è una nuvoletta azzurra e rosa che avvolge l’iconografia del parto. La neomamma è bellissima, il bimbo un angioletto e i due vissero insieme felici. Ma accade che una relazione così mitizzata costringa la donna a misurarsi con un ideale di perfezione che finisce per scontrarsi con la dura quotidianità che si trova ad affrontare. Spesso da sola. Negare a se stessa sentimenti di sfinimento, di aggressività, di intolleranza può produrre guasti duraturi che invece potrebbero, se accettati, essere risolti. Ma questa è solo una delle chiavi per accostarsi alle storie che la cronaca di questi giorni moltiplica. Storie che sollevano paure e interrogativi brutali. Storie di madri divoratrici. Donne che negano la gravidanza. Madri che riflettono sui loro bambini le violenze che esse stesse hanno subito. Donne che eliminano i figli perché li ritengono colpevoli delle loro frustrazioni. Madri che si prodigano in cure che paiono affettuose mentre in realtà stanno subdolamente uccidendo, anche se stesse. Partendo dai casi resi celebri dai media e da storie misconosciute, e raccogliendo testimonianze di donne assassine, gli autori indagano sull’amore che uccide. Per cercare, tra le righe della cronaca, risposte che superino tanto l’orrore quanto l’ipocrisia.
Un’altra lettura interessante è Madri assassine. Maternità e figlicidio nel post-patriarcato di Sara Fariello, edito Mimesis.
L’uccisione di un figlio per mano materna rappresenta nell’immaginario collettivo il più orribile dei delitti, ma, al di là della spesso morbosa attenzione dell’opinione pubblica e dei mass media, i dati statistici confermano una realtà consolidata con precedenti storici rilevanti. La stigmatizzazione della donna nel ruolo di madre assassina va ricondotta, quindi, entro un quadro più generale: dopo i movimenti di emancipazione degli anni 70, il sistema tende ancora – o di nuovo – a estromettere le donne da alcuni ambiti per relegarle nel ruolo di “buone madri”. In questo nuovo scenario “post/neo patriarcale” la femminilizzazione del mondo del lavoro e dello spazio pubblico è avvenuta attraverso meccanismi di “inclusione differenziante”, desoggettivizzanti oltre che anacronistici, alla luce del mutamento del concetto di identità sessuale e di genere, ancora tutto in divenire.