Il timballo del Principe…
Affezionati della nostra rubrica del sabato, oggi ho davvero una chicca da proporvi. Per farlo, però, ho bisogno che veniate con me, un po’ indietro nel tempo, alla fine dell’800, nella terra di Sicilia. L’isola è sotto il dominio borbonico, ma è pronta a passare alla storia con il famoso “sbarco dei mille”, a capo il cavaliere giunto dal mare, meglio conosciuto come Giuseppe Garibaldi. Siamo in pieno Risorgimento, la Sicilia, nonostante i venti di cambiamento, è ancora terra di una nobiltà che resiste agli scossoni degli moti rivoluzionari, si respira aria di unità che l’Italia insegue da tempo ma le grandi famiglie difendono, come possono, la loro storicità.
Anche il protagonista del nostro libro, il Principe di Salina non si arrende, il senso di appartenenza al proprio stemma, il Gattopardo, non gli consente di guardare oltre, almeno fino a quando, al suo tavolo, tutti potranno godere di un’atmosfera d’altri tempi e adeguata al rango. La storia del Gattopardo, ispirato alle vicende del bisnonno del suo autore, Giuseppe Tomasi Di Lampedusa, è la storia di un nobile uomo e della sua famiglia, ma è anche la storia di un epoca e dei suoi cambiamenti, nei quali la nobile famiglia vive le sue contraddizioni.
Nella villa di Donnafugata, tenuta di campagna da generazioni del Principe Fabrizio, i camerieri in livrea verde e oro sono tutti davanti al grande portone, in attesa del suo arrivo, per trascorrere l’estate insieme alla moglie Maria Stella, ai figli e a Tancredi, il suo nipote prediletto. Anche nelle grandi cucine c’è un gran da fare, di solito nelle cene di rappresentanza, il menù prevedeva, come scrive l’autore, “la classica brodaglia” ma questa volta, gli ordini sono ben diversi. Il lungo tavolo, delicatamente apparecchiato nella sfarzosa sala da pranzo illuminato dal grande lampadario di Murano e la sfavillante argenteria, è pronto ad accogliere i suoi invitati.
Tomasi di Lampedusa, nel suo romanzo, portato anche sullo schermo da Luchino Visconti, rievoca abilmente il rituale della cena con le sue nobili regole. 14 commensali tra i padroni di casa, le governanti e i notabili del paese, il sindaco Calogero Sedara, la figlia Angelica, di cui s’innamorerà Tancredi, Don Onofrio, l’amministratore del principe e Padre Pirrone, seduti intorno alla grande tavola imbandita, per onorare, come sempre, la magnificenza del capofamiglia.
Ma nel leggero chiacchierio, dopo i primi brindisi al Principe, ecco i camerieri in livrea servire “su uno smisurato piatto d’argento un torreggiante timballo di maccheroni” chel’autore descrive magnificamente cosi…
“L’oro brunito dell’involucro, la flagranza di zucchero e di cannella che emanava, non era che il preludio della sensazione di delizia che si sprigionava dall’interno quando il coltello squartava la crosta: ne rompeva dapprima un carico di aromi e si scorgevano poi i fegatini di pollo, le ovette dure, le sfilettature di prosciutto, di pollo e di tartufi nella massa untuosa e caldissima dei maccheroni corti, cui l’estratto di carne conferiva un prezioso color camoscio”
Il Timballo del Principe, che l’autore indica come “biblici pasticci,” suscita nei commensali, fremiti di ammirazione, e per il padrone di casa, la soddisfazione di compiacere lo riempie di nobile orgoglio. Ma conosciamo meglio questa delizia culinaria… Il famoso Timballo del principe o Timballo del Monsù, http://www.ricettedisicilia.net/primi/il-pasticcio-del-monsu/risale alla seconda metà dell’800, ma dalle ricerche fatte sembra che, ad inventarlo, siano stati i cuochi al servizio degli Emiri, addolcendolo con le spezie. Furono i cuochi francesi poi, a riprodurlo, aggiungendo prodotti tipici della cultura gastronomica siciliana e trasformandolo in quello che venne definito “Lu pasticciu de sostanza”. Ogni famiglia nobile palermitana, all’epoca, aveva il suo cuoco francese, il famoso “Mensieur,” ma agli assistenti del cuoco, probabilmente il nome doveva sembrare difficile e si preferi trasformarlo in “Monsù.”
In ogni capitolo del capolavoro letterario di Tomasi Di Lampedusa, il cibo risulta, in qualche modo, protagonista indiscusso. Ad ogni personaggio è abbinato un piatto, un dolce raffinato o il te leggero, il caffè più forte, secondo la situazione, il bicchiere di cognac delicato o il desiderio di un profumo che risvegli i sensi come l’estratto di carne al ragù, tanto caro al parroco. La famosa ricetta, nonostante tutto, ha superato anche l’unità d’Italia ed è arrivata a noi forse modificata nei sapori; al pecorino siciliano si è preferito il più digeribile parmigiano, ma la “sostanza del pasticcio” è quello di una volta. E’ consigliabile tuttavia, per la complessità nel doverlo cucinare e le forti calorie degli ingredienti, che una volta gustata, sia bene aspettare almeno un anno prima di ripetere l’esperienza, il rischio sarebbe di ritrovarsi con qualche chilo di troppo in pochissimo tempo. Buon appetito!!