Caro iCrewer oggi ti propongo un romanzo molto particolare che utilizza il genere fantasy per parlare del rapporto natura – uomo e per mantenere viva la memoria di una tragedia come quella provocata dalla rottura della diga del Vajont, che ha causato morte e distruzione.
Anche il cinguettio degli uccelli in fuga pareva un suono flebile, lontano, in mezzo a quell’urlo tonante di una natura imprigionata per anni dietro le mura di una diga.
Si tratta di “Le acque del sonno eterno” di Maria Cristina Pizzuto, edito Policromia,
autrice anche di “Boccioli di rose” e “Il bacio del mare“.
La storia ha come protagonista una bambina di dieci anni, Sara, che ha perso i genitori e va a vivere dallo zio Alberto, un uomo indurito dal dolore per la morte prematura della moglie Erika. La storia si svolge a Pomlete, nel misterioso castello di proprietà dello zio dove assistiamo al viaggio tormentato e a tratti inquietante di questa bambina, che cerca la sua dimensione, quella che possa consentirle di sopravvivere alla tragedia che l’ha colpita.
La rincorriamo tra le stanze proibite del castello, i suoi corridoi, i boschi e i prati intorno, le vie di Pomlete; e attraverso i suoi sogni, le fantasie, e le premonizioni dello spirito di Erika.
“Solo la luce della lanterna della carrozza rischiarava pochi metri di selciato, in quella notte di pece; neanche gli alberi si vedevano ai loro fianchi, e si sentiva solo l’ululato di qualche creatura boschiva e il fruscio delle foglie mosse dal gelido vento. Piccoli chicchi di pioggia cadevano sul terreno infangato.
Presa dalla paura delle tenebre più buie, Sara chiuse gli occhi sforzandosi di rammentare la tiepida aria che si respirava nella grotta appena visitata.”
La scrittura di questa autrice è “sensoriale”, le descrizioni ti catturano e sembra quasi di sfogliare un grande libro illustrato con le pagine dai colori forti e le immagini nitide.
Tutti i sensi sono coinvolti in questo romanzo che ci mette in ascolto del cuore palpitante della natura e di quello tremante di Sara, ci inebria con l’odore della terra e dei suoi frutti e fiori, e colpisce l’occhio con i suoi colori quelli più sgargianti e quelli tetri e spaventosi.
Il personaggio di Sara mi è piaciuto, lei è una bambina quando perde i suoi genitori e nonostante questo affronta la tragedia con grande forza e coraggio. La sua curiosità e fantasia la aiutano nei momenti difficili e grazie a questa sua caratteristica trova la sua strada nonostante tutto.
Erika, il fantasma della zia, è un personaggio fondamentale, forse la vera protagonista della storia. Rappresenta, secondo me, la natura imprigionata. Mette in guardia Sara che impersona “l’umanità”, che purtroppo anche se innocente, pagherà insieme agli altri.
La figura dello zio Alberto è un pò in ombra, e anche se sembra che nel tempo faccia un percorso di avvicinamento a Sara e alla vita, non seguiamo attraverso la narrazione questo processo.
Ciò che risalta nel racconto è la natura, la sua forza, la sua bellezza e il terrore che può incutere quando le sue ragioni non sono rispettate: l’acqua, in particolare, è l’elemento della natura protagonista del romanzo che dà vita e può toglierla.
La storia si svolge in due dimensioni quella fantastica e quella reale, che si intrecciano e si fondono in maniera armoniosa, mentre manca un po’ l’approfondimento sui personaggi che non si impongono sul resto, hanno poco spessore e non risalta bene il loro percorso interiore.
Questo romanzo ispira ad avere cura dell’ambiente, risorsa preziosa dalla quale dipende la nostra vita. Ne abbiamo conosciuto molte volte la sua potenza terrificante come ad esempio proprio nel caso della tragedia del Vajont, che deve assolutamente essere un monito all’intervento sconsiderato dell’uomo sulla natura.
Il viaggio che compie Sara è un percorso che serve a ritrovare la sua dimensione, quella che la vita le ha negato togliendole prematuramente i genitori e che lei ha ricercato caparbiamente trovandola nella libertà di scegliere per sé stessa.
La cura: il RISPETTO per noi stessi e per la natura è la cura.