Caro Lettore eccoci con un nuovo appuntamento di Spazio ai classici.
Ho pensato di scrivere in questa rubrica perché vorrei rispondere alla domanda sui classici che mi sono sempre fatta mentre ero a scuola: perché leggerli?
Il mio primo articolo lo dedico a Italo Svevo.
Prima di rispondere a queste domande faccio una piccola premessa, giusto per inquadrare un po’ il mio rapporto con i classici.
Mi sono diplomata in una scuola tecnica dove si studiavano tre lingue, infatti la mia prima passione sono state le lingue straniere, ma allora non c’era un liceo linguistico pubblico e quindi ho ripiegato su questa opzione. Si sa, spesso al momento di scegliere la scuola superiore, come è successo a me, non si hanno proprio le idee chiare.
Il mio professore di italiano, però, era un grande appassionato della materia e ancora ricordo tutte le volte che cercava, spesso invano, di farci capire l’importanza della lettura dei classici.
Io devo ammettere che ai tempi della scuola superiore non ero ancora una grande lettrice e questo mi dispiace, infatti proprio a causa di ciò secondo me non li ho apprezzati pienamente, pensando come spesso accade che fossero cosa vecchia e a tratti inutile o incomprensibile.
Mi sono però ricreduta con il tempo e oggi penso che ci siano molti motivi per cui uno studente dovrebbe approcciarsi ai classici in maniera diversa. In che modo?
Ci si potrebbe avvicinare prima al vissuto dell’autore per trovare delle affinità e rileggere il suo romanzo in chiave più personale.
Provo a fare questo piccolo esperimento proprio con Italo Svevo.
Innanzitutto ci troviamo nel 1861 quando nasce Hector Aron Schmitz, a Trieste, da genitori di origini ebraiche. Italo Svevo è lo pseudonimo che sceglie proprio per mettere in evidenza questa sua doppia origine.
Intraprende studi di carattere commerciale, ma nel 1880 è costretto ad interromperli per lavorare nell’azienda vetraria di famiglia, che poi fallirà.
Hector viene poi assunto alla Union Bank, dove lavorerà per 18 lunghi anni. Coltiva però da sempre una profonda passione per la letteratura.
Nel 1892, anno della morte del padre, pubblica il romanzo, Una vita, ma non ha fortuna, inoltre collabora con alcuni giornali, sempre lavorando in banca.
Nel 1896, convertitosi al cattolicesimo, sposa Livia Veneziani. Nel 1898 pubblica il suo secondo romanzo, Senilità, ma anche questo passa inosservato e così Hector abbandona la sua attività letteraria.
Si dimette dalla Union Bank per lavorare nell’azienda del suocero, un’industria di vernici sottomarine.
Ma qui il destino gioca a suo favore e dovendo migliorare l’inglese per vendere le vernici sul mercato britannico, all’età di 46 anni si iscrive alla Berlitz School di Trieste dove incontra James Joyce. È lui l’insegnante di inglese di Svevo.
La loro comune passione per la letteratura li unisce e diventano amici: ed è proprio Joyce ad incoraggiarlo a scrivere un nuovo romanzo.
Nel 1919 Svevo inizia a scrivere La coscienza di Zeno.
La pubblicazione del 1923 è ancora una volta accolta con indifferenza dai lettori e dalla critica ma Joyce, rimasto in contatto con lui, se ne interessa promuovendola fra le sue conoscenze e finalmente l’opera riesce ad emergere. E anche in Italia, Eugenio Montale ne celebra il talento.
Allora se vogliamo provare a immedesimarci in lui di certo non possiamo pensare alle dinamiche sociali, culturali dell’epoca che sono completamente diverse dal tempo che viviamo oggi, ma possiamo provare invece a pensare Italo Svevo più vicino a noi per la vita che ha condotto.
Capita infatti a molti di scegliere un indirizzo di studi completamente opposto rispetto alle nostre passioni e a continuare a coltivare quella passione nonostante tutto e tutti, fino a quando proprio quando si pensa di abbandonarla, di aver sbagliato tutto, qualcuno inizia a credere in noi e tutto cambia.
E adesso che Svevo ci sembra uno di noi possiamo leggerlo e capirlo anche di più.
E allora proviamo ad approcciare il suo romanzo La Coscienza di Zeno.
Attraverso l’espediente della psicoanalisi e quindi della necessità di mettere su carta le sue memorie come cura, affronta i suoi vizi, la morte del padre, il suo matrimonio, insomma tutti i momenti cardine della sua vita acquisendo sempre più consapevolezza di sé stesso.
Per poi concludere con una frase che per me è stata rivelatrice:
La vita somiglia un poco alla malattia come procede per crisi e lisi ed ha i giornalieri miglioramenti e peggioramenti. A differenza delle altre malattie la vita è sempre mortale. Non sopporta cure.
La malattia quindi, dice Svevo, è un fenomeno comune e non personale.
La vita stessa, i suoi accadimenti e tutte le situazioni belle e brutte che ci capitano unite al modo in cui le affrontiamo sono la cura.
Per tornare alle domande che ci siamo posti inizialmente: questo romanzo io credo che sia davvero un piccolo tesoro perché innanzitutto ognuno di noi può immedesimarsi in quest’uomo che prova a elaborare la sua angoscia esistenziale cercando di analizzare i confini tra salute e malattia, fra personale e comune.
Zeno è un uomo debole, dipendente dal fumo, insicuro, che non riesce ad emergere, ma non è detto che sia lui quello sbagliato, ha dei limiti ma può imparare a conoscerli e a conviverci o a cambiare, perché in effetti non c’è una medicina che cura i disagi interiori. Siamo noi che li rendiamo più forti non accettandoci.
Ti aspetto al prossimo appuntamento con un nuovo classico!