In questo appuntamento con Sogni di carta, abbiamo dialogato con Johann Lerchenwald, sul suo ultimo libro H. Come Hitler vedeva i suoi tedeschi.
Iniziamo con alcune domande sul libro
Avendo già affrontato il tema alcuni anni prima in due essay, Die Deutschen und die Schuld (I Tedeschi e la colpa) e Geistige Lage der Nation (Lo stato spirituale della nazione), ho sentito a un certo punto il bisogno di rintracciare l’origine di quel trauma, di quel blocco emozionale e intellettuale che segna ancor oggi i Tedeschi. Perché, a più di settant’anni dalla fine della guerra, è evidente che i mea culpa di rito e i risarcimenti monetari alle vittime non risolvono un bel niente.
In genere si cerca di ricostruire la figura di Hitler partendo dalla conclusione della sua parabola, vale a dire dalle immani distruzioni e dagli inconcepibili forni crematori. Ne viene fuori un essere genericamente mostruoso che, favorito da una situazione storico-economica particolare, ha saputo diabolicamente sfruttare la sua retorica per fuorviare un popolo sprovveduto e maltrattato dalla sorte. E non un uomo reale.
Nel mio libro Hitler ha invece una sua storia personale e fino al trentesimo anno d’età non lascia minimamente presagire quello di cui sarà capace poi. Perché, pur coltivando una segreta mania di grandezza, non si fa mai trascinare a una qualche azione concreta. E se non avesse incontrato i Tedeschi, si sarebbe forse ridotto a un accattone un po’ svitato o forse si sarebbe suicidato, ma non sarebbe certo diventato il personaggio politico che diventò.
Infatti, a differenza di altri dittatori, egli non lotta e non si espone sin dalla giovinezza, ma in un dato momento trova tutto pronto, e il suo “genio” consiste nel riconoscerlo. Imitandoli, fa credere ai Tedeschi d’essere più tedesco di loro e agli Europei di essere il legittimo rappresentante dei Tedeschi. Questi si aggrappano alla loro convinzione fino alla disastrosa sconfitta, gli Europei sono costretti a mantenere la loro dall’accanimento con il quale i Tedeschi combattono per Hitler.
Solo mettendo a fuoco che egli ha saputo appropriarsi cinicamente di comportamenti e aspirazioni insiti nel popolo che voleva dominare, si può comprendere Hitler e quindi sfatare una volta per tutte il suo mito: ed è quello che credo di aver fatto in “H”.
Qual è stata la parte più difficile nella stesura di questo libro?
La difficoltà maggiore è consistita nel trovare un giusto e credibile equilibrio tra l’autocoscienza e l’autosuggestione di Hitler. Perché, se è vero che egli percepì freddamente, come dal di fuori, il dipanarsi degli avvenimenti, non poté per questo essere esente da una certo grado di immedesimazione con il personaggio che interpretava, da cui derivò anche l’esaltazione che gli fu indispensabile per resistere.
Qual è, se c’è, il passaggio o capitolo/chiave di volta per capire il libro?
Non credo che ce ne sia uno, perché in ogni storia vera quello che avviene in un dato momento è il risultato di tutto quanto l’ha preceduto. In varie circostanze Hitler stesso asserì che questo o quello era stato il giorno o l’incontro più importante della sua vita. Ma era un modo di dire, che esprimeva lo stupore che certi fatti o avvenimenti suscitavano in lui, quando si guardava indietro. Probabilmente il momento più decisivo tra tanti momenti decisivi fu per lui la scoperta di quell’insignificante DAP che successivamente trasformò nel potente NSDAP, non senza prima aver dovuto superare tante resistenze interne e esterne.
E ora qualche domanda più personale a Johann Lerchenwald
Padre tedesco, madre austriaca. Si è sentito personalmente coinvolto nel dover scrivere questo libro?
Mio padre frequentava la scuola alberghiera di Dresda e sognava di poter un giorno girare il mondo sui transatlantici insieme a un amico, quando, una notte, a diciassette anni, fu tirato giù dal letto e spedito a Praga per un addestramento-lampo, quindi a Stalingrado dove sopravvisse, con due soli altri soldati della sua compagnia, anche grazie a diversi ricoveri al lazzaretto.
Invece il mio nonno materno era capitano della polizia di Vienna, quando l’Austria fu invasa dai Tedeschi. Padre di cinque figlie, minacciato di rappresaglie perché rifiutava di iscriversi al partito, fu colpito da ictus e rimase paralizzato per il resto della sua breve vita. Ma non sono state queste storie a indurmi a scrivere il libro. Ho avuto la fortuna di crescere a Roma, lontano dalla cappa di piombo che opprimeva il mio paese nel dopoguerra, e per di più a scuola lo studio della storia s’interrompeva con Bismarck e la fondazione del Reich. Ragion per cui, forse, se non fossi venuto a vivere in Germania, non mi sarebbe mai venuta l’idea di scrivere un romanzo su Hitler.
A un lettore indeciso, cosa direbbe per presentargli questo libro?
Gli direi: vuoi finalmente sapere com’è stato possibile tutto quello che hai visto nei film, appreso da innumerevoli reportage televisivi e voluminose opere storiche sul nazismo? Vuoi finalmente penetrare l’enigma Hitler? Allora non perderti questo libro che, malgrado il tema, offre fra l’altro una lettura chiara e molto coinvolgente.
Ringraziamo Johann Lerchenwald per questa interessantissima chiacchierata in cui, tra le altre cose, è riuscito a rispondere ad alcune curiosità che mi erano sorte recensendo questo libro.