Salve lettore, ho avuto il piacere di intervistare il professor Danilo Pennone, scrittore di “Il cadavere del lago“, di cui qualche giorno fa ho scritto la recensione.
Sono lusingato dalla sensazione che lei ha percepito nel leggere il mio romanzo, ma ridimensionerei di molto quell’”ampia cultura”. Un uomo di ampia cultura, e per me modello di cultura, è Leonardo Sciascia, dal quale, tra l’altro, ho preso in prestito una frase del suo libro “Il cavaliere e la morte”, messa in esergo. Il suo sapere enciclopedico, il suo impegno politico e civile, il suo spessore sono esattamente le caratteristiche che dovrebbero contraddistinguere un vero uomo di cultura. Per quello che mi riguarda c’è ancora tanta strada da fare. Certamente, però, mi riconosco in quella passione di cui lei parla. Una passione che, curiosamente, più che negli anni del liceo, si è sviluppata negli anni dell’università. Passione tardiva, dunque. Le mie prime passioni, antecedenti, sono state la musica e il cinema. Direi, senz’altro, che la mia è una narrativa che attinge più che alla letteratura al cinema e alla musica. È chiaro che ho anche dei riferimenti nella letteratura, e non solo quella di genere. Prima citavo Sciascia, aggiungerei Dürrenmatt, ma anche Dickens, Conrad, Stevenson, una buona parte della narrativa americana del Novecento, e poi Dostoevskij, Kafka… ma non vorrei scivolare nello sfoggio, quindi mi fermo. Ho citato questi nomi solo per dire che la passione cresce se l’alimenti; e quale nutrimento migliore se non le opere di questi immensi autori?
Quali sono i suoi autori preferiti? L’uso del cognac, del sigaro, un fedele compagno peloso… mi hanno ricordato l’ispettore Colombo!
A parte quelli sopra menzionati, il professor Danilo Pennone ha voluto aggiungere Renato Olivieri, con il suo umanissimo commissario Ambrosio, Henning Mankell, che grazie al suo Kurt Wallander mi ha fatto appassionare ancora di più a certe atmosfere nordiche, Simenon, il vero maestro del noir, con il suo Maigret, Scerbanenco che ho apprezzato molto per il carattere visivo dei suoi racconti, sebbene non abbia incentrato i suoi romanzi sulla figura seriale di un commissario. E come non menzionare Camilleri, con il suo intramontabile Montalbano, oltre ai già citati Sciascia e Dürrenmatt. Certo la lista dei commissari è molto lunga, da Ciccio Ingravallo a oggi ne sono nati tantissimi dalla penna di altrettanti scrittori. Per quel che mi riguarda, io mi sono aggiunto a questa folta schiera. In merito al tenente Colombo – e direi più in generale a quel cliché di commissario che ormai caratterizza gran parte di questi funzionari di Polizia divenuti loro malgrado eroi o antieroi in vicende che ci lasciano spesso con il fiato sospeso –, il commissario Ventura, anche se per certi tratti potrebbe ricordarlo, non si ispira a lui. In realtà avevo in mente qualcun’altro, ma per le ragioni che spiegavo prima, per il fatto cioè che mi sono ispirato molto di più al cinema che alla letteratura, forse con malcelato autocompiacimento mi sono lasciato andare ad alcuni stereotipi inconfondibili che hanno caratterizzato i protagonisti di film o telefilm del passato.
Quanto delle descrizioni sul seminario apostolico irlandese c’è di vero nel suo racconto?
Allora, premesso che il disclaimer all’inizio del libro vuole subito chiarire che le vicende e i personaggi sono il prodotto della mia immaginazione e che i pensieri e i giudizi pronunciati dal protagonista sulla politica, la religione, le istituzioni e le persone appartengono a lui soltanto e non a chi gli ha dato voce, di sicuro troviamo episodi di cronaca e avvenimenti reali che mi sono serviti da cornice al racconto. Ora, riguardo al seminario, esso esiste. L’ho frequentato e gli devo molto. Lì ho potuto preparare la mia tesi sullo scrittore irlandese Flann O’Brien. Bisogna considerare che, almeno fino a più di trent’anni fa, al tempo in cui preparai la mia tesi appunto, a Roma, come in tutta l’Italia, era molto difficile trovare un luogo dove vi fossero libri che trattassero dell’Irlanda e, nello specifico, dei suoi scrittori, soprattutto quelli meno noti. L’ambasciata qui a Roma aveva, e credo abbia ancora, una buona raccolta di volumi, ma per me che avevo bisogno di approfondire alcuni temi, in particolare riguardanti la mitologia celtica, trovai nel seminario tantissima documentazione. E questo non potendo effettuare ricerche direttamente sul luogo. Tant’è che molto materiale utile e importante l’ho reperito in seguito quando sono andato in Irlanda. Quindi, la vita del seminario posso dire di conoscerla abbastanza. Com’era scandita la giornata, tra studi, tempo libero e preghiera, un certo tipo di mentalità, le aspirazioni. La maggior parte delle persone che entravano in seminario non superava i venticinque anni. Ragazzi, dunque, con la vocazione ma anche presenti nel loro tempo, e in quegli anni l’Irlanda attraversava momenti drammatici, mi riferisco, in particolare, ai Troubles nell’Irlanda del Nord, con la speranza che oggi la Brexit non riaccenda quegli antichi conflitti. Poi c’è tutta la questione degli scandali venuti fuori in questi ultimi anni. Il seminario ne è completamente estraneo. Sono fatti che riguardano solo alcune parrocchie di qualche diocesi dell’isola. Ecco, dalla sovrapposizione di questi elementi ne è scaturita una suggestione che mi ha influenzato nel raccontare questa storia.
La biblioteca di cui parla nella sua opera, dunque, esiste davvero? È visitabile? Sono stata a Roma, ma non ne conoscevo l’esistenza, ammetto che la visiterei volentieri, soprattutto se quella libreria con il suo contenuto di libri antichi è aperta al pubblico e permette di immergersi nell’odore della carta…
Come le dicevo prima, la biblioteca esiste. Non so se oggi sia ancora accessibile al pubblico. Forse con una lettera di presentazione e qualche buon motivo vi si può accedere. Non saprei. Molto interessante è la sezione dedicata ai libri antichi. Si va dagli incunaboli fino ai testi del primissimo Ottocento, passando per le varie cinquecentine, seicentine etc. Non è la labirintica Biblioteca di Babele, immaginata da Borges ma per un autentico bibliofilo, che come lei dice ama “immergersi nell’odore della carta”, potrebbe rappresentare un’occasione interessante.
Crimbo è un “personaggio” meraviglioso… Da dove deriva il suo amore per i cani? Sono da sempre una amante degli animali ed ho apprezzato tantissimo la presenza di Crimbo nel racconto!
Io non ho un cane, anche se sono sempre stato circondato da cani. Non fraintendiamo. Da bambino il mio miglior amico aveva un cane di nome Argo, un meticcio, credo a metà fra un pointer e un dalmata. Molto intelligente e affettuosissimo. Poiché il mio amico ed io siamo cresciuti insieme, Argo in un certo senso è stato anche il mio cane. Dovunque andassimo, lui era sempre con noi. Poi, mia sorella ha avuto una serie di cani, ancora oggi ne ha uno, un pinscher, ahimè vecchiotto ormai, ed è penoso vederlo così anziano. Sembra che abbia l’esatta consapevolezza dell’immediato destino che dovrà travolgerlo. A me sembra che nei cani avanti con l’età ci sia nel loro animo una malinconia quasi “umana”. Ebbene, ho pensato che questa caratteristica si confacesse molto bene allo stato d’animo del commissario Ventura. Nella sua solitudine, Crimbo è come una lama di luce che lo rischiara, che gli permette di tirar fuori la sua di umanità, quella di un commissario con ancora un inaspettato amore per la vita e la verità.
Ha altri progetti letterari nel cassetto? Altre indagini del commissario Ventura? Mi è piaciuto molto come personaggio…
Ci sarà un prima e ci sarà un dopo. Il cadavere del lago è il perno centrale, la storia con cui si comincia e attorno alla quale ruotano altri due racconti. I fatti narrati in quello che dovrà essere il secondo romanzo in realtà precedono la storia descritta ne Il cadavere del lago. Si tratterebbe di un prequel in cui vengono chiariti episodi che ne Il cadavere del lago sono già avvenuti ma le cui cause non sempre sono immaginabili. La morte di Anna, la figlia di Ventura, per esempio, e le ragioni che l’hanno portata a commettere un omicidio, diventato poi motivo della sua morte. Anche in questo caso si tratta di una detective story che intreccia le tappe dell’indagine vera e propria alla vicenda umana di Ventura. Come nel primo romanzo, la trama poggia sul doppio binario “indagine-vita privata”. Il testo richiama la tradizione del noir, in cui l’interesse volge tanto alla ricerca del criminale, quanto alla descrizione psicologica dei personaggi, soprattutto del protagonista. L’ultima parte di questo trittico riparte dall’epilogo de Il cadavere del lago, del quale pertanto è da considerarsi suo sequel. Ventura, ormai ritiratosi in pensione, torna in Sicilia per trascorrere la vecchiaia nei luoghi della propria infanzia e della giovinezza. In questa cornice si consuma l’ennesimo fatto di sangue che vede l’ormai ex commissario protagonista involontario di un’altra indagine non autorizzata. Per il resto, tutto dipenderà dalla curiosità dei lettori. Anche se è apparentabile al genere thriller/noir, questo è il romanzo di una vita e perciò tanto ancora ci sarebbe da raccontare su Ventura per spiegare tutte le vicende che lo hanno portato a essere quell’uomo e quel commissario che abbiamo conosciuto.
Da cosa nasce questo suo interesse per gli interrogatori, i procuratori, i rapporti legali, giudici, indagini, ecc…?
Se si decide di scrivere un romanzo che abbia al centro un’indagine poliziesca è bene conoscerne i meccanismi. È stato un lavoro quasi filologico, citare articoli del codice, utilizzare termini appropriati, distinguere esattamente i ruoli e le competenze degli inquirenti. A un certo punto, però, mi sono reso conto che con tutte queste descrizioni da “addetti ai lavori” rischiavo di diventare eccessivo, troppo iperrealistico. Io amo il realismo nell’arte, la mia aspirazione è sempre quella di riuscire a riproporre la realtà in maniera rigorosa, direi quasi ossessiva, soprattutto nei dettagli, ma con questo romanzo mi sono accorto che la fotografia che facevo della realtà a volte diventava quasi maniacale. Tanto che a certo punto della storia ho preferito lasciarmi un po’ andare. Come? Ritornando ai film di cui parlavo prima, da bambino mi colpiva tanto l’espressione “emettere un mandato di cattura”. Lo sentivo nei film ma anche nei notiziari, così ho voluto far pronunciare questa frase al magistrato che si occupa di risolvere il caso. In realtà, si tratta di un provvedimento del Codice di procedura penale che è stato abrogato con la riforma del 1988, assieme alla figura del giudice istruttore. Oggi si parla di “misure cautelari”, “decreto di fermo” etc. Ecco, qui ho sfidato la “sospensione dell’incredulità” del lettore, magari magistrato o appartenente alle forze dell’ordine, per il solo piacere di giocare con un vecchio ricordo. Almeno sono sicuro che, per questa mia licenza, nessuno potrà mai emettere un mandato di cattura nei miei confronti.
Qual è il suo personaggio preferito del racconto?
Sicuramente il protagonista Mario Ventura. Un commissario con un modo tutto personale di intraprendere indagini. Provo simpatia per lui, per la sua difficile condizione esistenziale che comincia dalla lontana nobile aspirazione mancata di diventare musicista e raggiunge l’apice con la morte della moglie, un magistrato ucciso in un attentato mafioso, quando, con lei, viveva ancora in Sicilia. E, come se non bastasse, con un altro lutto ancora più difficile da elaborare: la morte della figlia. È un uomo che si è rinchiuso in una dolorosa solitudine. Una vita di sconfitte, anche se poi comunque Ventura rimane un combattente alla ricerca della verità, la cui lotta spesso viene frustrata dalla longa manus di istituzioni e di poteri anonimi che tutto possono nascondere e far passare sotto silenzio.
C’è sempre qualche coincidenza tra la vita di un personaggio che si inventa e quella del suo autore. E ciò avviene più o meno consapevolmente. Con Ventura, per esempio, condivido la sua riservatezza, a volte perfino la sua solitudine o il dolore che perseguita un po’ tutti, ma direi soprattutto la caparbietà che mostra quando vuole raggiungere un obiettivo a tutti i costi.
Perché ha scelto di ambientare il suo racconto nella chiesa irlandese?
Da tempo volevo raccontare una storia che avesse come protagonista anche l’Irlanda. Sia per la passione che ho avuto nei suoi confronti sia per l’opportunità di spendere ciò che ho imparato su di essa. È un omaggio a una terra cui per un certo periodo ho sentito di somigliare. Ma oggi quello stato d’animo è cambiato ed è cambiata anche l’Irlanda. Sono anni che non torno più su quell’isola. Da quello che vedo e da ciò che mi dicono ha lasciato dietro di sé il suo vecchio inconfondibile carattere. Sicuramente nelle città. Un altro degli effetti della globalizzazione? Chissà. Mi chiedo cosa rimane oggi del Gaeltacht? Quelle piccole zone dove ancora sopravvive il gaelico. A volte sono preso da una specie di “primitivismo” pasoliniano verso la realtà. Una nostalgia per un passato che ormai ritrovo in pochissimi luoghi, e direi solo nei romanzi. La Chiesa irlandese, anche se ormai ha perso un po’ del suo antico carisma, e purtroppo anche a causa degli scandali, per me rimane sempre il baluardo di un’Irlanda idealizzata.
Qual è il messaggio che vorrebbe far arrivare ai suoi lettori?
Senza svelare troppo, dirò solo che in questo romanzo ci sono tre morti: il primo lo incontriamo all’inizio della vicenda, il secondo all’incirca a metà storia, il terzo nel finale, ed è il lettore a scoprire chi è l’ultima vittima. Il vero messaggio è racchiuso lì, in quella conclusione.
Perché scrive e cosa le regala la scrittura?
Scrivere, per me, non è un’operazione d’intelligenza, ma un modo per essere padrone del tempo. Nello scrivere preferisco quel realismo che ha a che fare con le cose, che le rispecchi e che rifletta la realtà. E poi mi piace la costruzione del romanzo. Sempre secondo me, scrivere è anche il modo più efficace per comunicare. In una società fortemente comunicativa come la nostra, i cui ritmi sono diventati incalzanti, le forme di comunicazione sono ormai molteplici e svariate. Ci si affida soprattutto ai social network che velocizzano con impeto la circolazione delle informazioni ridotte a una sintassi scarna. Scrivere, allora, ristabilisce il contatto tra me e il tempo, di cui parlavo prima, che provo a scandire in modo seducente all’interno di una storIa.
Ringrazio il professor Danilo Pennone per il tempo che ci ha dedicato e le indiscrezioni rivelate, attendo con ansia i due libri che ci ha preannunciato.