Un genitore, per il figlio, è un punto fermo di conoscenza e apprendimento, ma quando questa figura diventa tossica, il dilemma dell’odio emerge con forza. Essere figli impone la necessità di seguire coloro che sono i genitori, coloro che essendo più anziani di noi sanno come il mondo si muove, un ciclo indelebile che ogni adulto porta con sé fin da quando l’uomo ha fatto la sua comparsa.
La trama de L’Avvelenatore
Nelle campagne dove Arno Paternoster è cresciuto, i contadini diffondevano concimi azotati, fosforo e cloruro di ammonio ogni anno. Suo padre, fin da quando era bambino, gli mostrava le sinistre iridescenze delle pozzanghere per ricordargli che quelle sostanze scorrevano anche nell’acqua che bevevano.
Il dottor Paternoster, nonostante fosse un medico rispettato e un punto di riferimento nella comunità ha trascorso la sua vita contaminando ogni pensiero di suo figlio, avvelenando ogni decisione familiare, agendo come un veleno insidioso.
Nessuno avrebbe mai creduto che abusasse in modo malato della sua autorità all’interno della famiglia. Arno è ora un adulto con una vita stabile: un buon lavoro, una moglie poliziotta e una figlia. Non ha visto suo padre per anni, ma la presenza avvelenata di quest’ultimo lo perseguita come un’ombra. Quando il dottor Paternoster viene ucciso, il figlio, Arno diventa il principale sospettato, tornato di nascosto nella casa di famiglia e senza un alibi, la sua posizione è compromessa.
Lo ha ucciso lui?
Se si, perché?
Se non è stato lui, chi avrebbe avuto interesse a compiere tale azione?
L’autore
Emanuele Altissimo usa uno stile teso e preciso, raccontando senza troppi giri di parole le vicissitudini di una relazione familiare dolorosa, contornata da una comunità provinciale incapace di guardare oltre il proprio naso; incapace di liberarsi dai propri fantasmi. A quattro anni dal suo esordio, offre un romanzo intriso di sottile tensione psicologica. Con il ritmo di un’indagine criminale, esplora le nostre case, i nostri armadi ordinati e le parole che esitiamo a pronunciare, conducendoci nell’oscurità per farci desiderare la luce. È nei momenti in cui sembra che nessuno creda in noi che dobbiamo combattere per la nostra libertà.