Nel cuore della notte, quando la realtà si scioglie nei contorni incerti dell’immaginazione, l’essere umano incontra un mondo in cui il tempo si contrae, lo spazio si contorce e le regole della veglia svaniscono. Il sogno, tanto elusivo quanto affascinante, ha sempre sollecitato la curiosità di filosofi, mistici e pensatori di ogni tempo. Nell’appuntamento domenicale con la rubrica Filosofiamo esploriamo i diversi significati che esso ha rivestito nel corso dei secoli.
Spiritualità o razionalità?

Nel suo libro Il sogno come terapia lo psicologo junghiano Carl Alfred Meier tratteggia un interessante affresco dell’antica Grecia e dell’antica Roma evidenziando l’importanza che il sogno ricopriva nell’Antichità e sottolineando la duplice veste che questoha sempre rivestito: quella mistico-religiosa e quella razionale-psicologica.
In molte civiltà preclassiche, non solo occidentali ma anche orientali come quelle mesopotamiche ed egizie, il sogno veniva registrato e interpretato da sacerdoti e veggenti. Era una dimensione intermedia, quella in cui l’essere umano e il divino erano più vicini, e in cui era possibile raggiungere verità o condizioni che da vigili non sarebbero mai state accessibili. Ad esempio, attraverso l’oniromanzia (l’arte divinatoria dei sogni) il sacerdote antico era in grado non solo di ottenere stralci del futuro ma anche miracoli e benefici divini.
Nei templi di Asclepio, dio della medicina, gli infermi e i sofferenti si recavano per sottoporsi a dei particolari riti e cerimoniali a seguito dei quali, durante il sonno, potevano incontrare direttamente il dio che riferiva loro la giusta terapia o, più spesso, curava direttamente ogni male.
Ma è con Platone che comincia ad esserci un approccio non solo religioso ma anche filosofico. Nella Repubblica, Platone descrive l’anima come divisa tra parti razionali e irrazionali: nel sonno, le componenti impulsive, normalmente represse dalla ragione, si manifestano. Eppure, proprio in questo disordine, emerge qualcosa di autentico. In uno dei suoi dialoghi minori, il Teeteto, si chiede se i sogni non siano una forma soggettiva di realtà, aprendo la strada a riflessioni che risuoneranno nei secoli a venire.
Nel pensiero aristotelico la valenza psicologica del sogno è ancora più evidente. Aristotele, nel trattato De insomniis, analizza il sogno come attività dell’anima sensitiva, non come messaggio divino ma come effetto della percezione e del pensiero durante il riposo. È, in fondo, uno specchio delle emozioni e delle impressioni quotidiane, un epifenomeno naturale. Tuttavia, anche in questa riduzione materialistica, non si nega un ruolo conoscitivo, perché esso riflette stati interiori che la veglia spesso maschera.
Con l’avvento del Cristianesimo, il sogno recupera una valenza spirituale. I sogni di Giuseppe, padre putativo di Gesù, diventano esempio di sogni profetici e salvifici. I Padri della Chiesa, da Agostino a Gregorio Magno, riconoscono che in certi casi Dio possa comunicare attraverso il sonno, ma invitano anche alla cautela, poichè da addormentati è più facile cadere preda degli inganni diabolici. Il sogno è dunque uno spazio ambiguo, in cui il sacro e l’inganno si sfiorano.
Dai romantici all’inconscio: il sogno come coscienza interiore
Nel Medioevo e nel Rinascimento, questa ambivalenza persiste. La Divina Commedia, ne è l’esempio più eclatante: Dante sogna visioni mistiche, guidato da Virgilio e Beatrice in un percorso di purificazione e conoscenza. I sogni di Dante non sono solo narrazione: sono l’emblema di un viaggio dell’anima, un’esplorazione dell’aldilà ma anche dell’interiorità. Similmente, Girolamo Cardano, filosofo e scienziato rinascimentale, studiò i sogni cercando di coglierne schemi e significati nascosti, intuendo una relazione tra mondo onirico e vita psichica.
Nel Settecento e nell’Ottocento, l’Illuminismo riduce il sonno a una funzione fisiologica, ma è il Romanticismo che lo riabilita con forza come via d’accesso all’inconscio e all’invisibile. Novalis scrive che la vita è un sogno e il sogno è vita, e per i poeti romantici il sogno diventa un ponte verso l’assoluto, un mezzo per superare i limiti della razionalità. Schelling, nei suoi scritti filosofici, vede nei sogni una manifestazione dell’inconscio, precorrendo le teorie psicoanalitiche del Novecento.
Con Sigmund Freud, il sogno entra definitivamente nella modernità. Ne L’interpretazione dei sogni (1900), Freud afferma che il sogno è la via regia per l’inconscio, un linguaggio cifrato con cui la psiche esprime desideri repressi. La conoscenza che il sogno fornisce non è più divina o metafisica, ma psicologica: interpretarlo significa comprendere se stessi. Carl Gustav Jung andrà oltre, suggerendo che i sogni attingono anche a un inconscio collettivo, popolato di archetipi condivisi. Il sogno, per Jung, non è solo riflesso del passato, ma anche guida per il futuro, strumento di trasformazione e di individuazione.
Nel pensiero contemporaneo, figure come Michel Foucault o Gaston Bachelard recuperano il sogno come spazio di rottura, di libertà immaginativa e poetica. Bachelard, in La poetica della rêverie, descrive i sogni come esperienze poetiche primarie, fonti di immagini che sfuggono alla logica e si aprono all’intuizione. Più recentemente, filosofi come Thomas Metzinger o Evan Thompson, legati alle neuroscienze cognitive, si interrogano sul senso del sé nel sonno lucido: quando si sogna consapevolmente, chi è il soggetto che sogna? Il sogno non solo come riflesso, ma come laboratorio della coscienza.
Alla fine, il sogno resta un enigma. È specchio dell’anima, teatro dell’inconscio, messaggio simbolico, fuga, ma anche verità. Il sogno non ci fornisce risposte chiare, ma pone domande profonde. Come scrisse Carl Jung: Chi guarda fuori sogna, chi guarda dentro si sveglia. Ed è forse, proprio nei sogni, che impariamo a guardarci dentro e a scoprire cose che, da svegli, siamo troppo “addormentati” per capire.