Con una denominazione come Codice di Dresda, tutto verrebbe da pensare, tranne che si trattasse di un antico manoscritto Maya, e invece è proprio così.
In realtà, riflettendoci, non è un fatto così inconcepibile: molti tesori o oggetti furono trafugati dai conquistatori europei una volta giunti nel continente americano, e non è strano che alcuni di questi oggetti, probabilmente i più pregiati o curiosi, venissero rispediti in patria, come dono per signori e sovrani che avevano finanzialo le spedizioni – non dissimile è quanto accade per i cosiddetti “bottini di guerra”.
Da qui – o meglio, dal luogo dov’è tutt’ora conservato – deriva il nome odierno del codice, ossia Codice di Dresda. Un discorso analogo si può fare per altri due dei quattro manoscritti Maya superstiti: il Codice di Parigi e il Codice di Madrid, mentre il terzo, il Codice di Grolier, si trova a New York.
Codice di Dresda: storia e contenuti
La civiltà Maya è una di quelle che, per noi moderni, rimane avvolta dal mistero, piena di lacune e incognite. Ciò dovuto al declino a cui questa grande e potente civiltà, che aveva regnato nella penisola dello Yucatan per svariate centinaia d’anni, andò incontro ben prima dell’arrivo degli europei. Le cause non sono ancora del tutto certe, vista la mancanza di cronache storiche e la difficoltà nel decifrare la scrittura Maya, ma gli esperti sono quasi convinti che siano probabilmente riconducibili a lotte per la sovranità tra un paio di città-stato e un lungo periodo di siccità.
Quelli che incontrarono i conquistadores, quindi, erano discendenti che avevano un vago ricordo della loro cultura e dei fasti del passato, ma che ancora ne conservavano artefatti, come antichi manoscritti. Tuttavia, non bisogna dimenticare che non giunsero soltanto soldati, nel Nuovo Mondo, ma anche missionari cristiani, forti della convinzione dell’importanza dell’evangelizzazione. Perciò, oltre a torture fisiche e psicologiche, volte a obbligare la popolazione alla conversione, gli europei procedettero al tentativo di cancellare la cultura nativa (qui come in moltissimi altri posti del mondo), anche dando alle fiamme i manoscritti.
Per questo motivo il Codice di Dresda è così importante: è uno degli unici quattro esemplari rimanenti. Ê composto da fogli di amate, ossia una sorta di carta ottenuta dalla corteccia di un particolare tipo di ficus, piegati poi a fisarmonica e racchiusi tra due placche di legno. Completamente aperto raggiunge i 3 metri e settanta centimetri di lunghezza, mentre è alto venti centimetri. Scritto sia sul fronte che sul retro, contiene settantotto pagine, larghe circa dieci centimetri e divise almeno in due sezioni orizzontali (se ne trovano anche divise in tre o quattro).
Gli scribi che composero il Codice di Dresda – se ne contano almeno otto, che impiegarono diversi stili di scrittura, ognuno incaricato di una materia diversa – utilizzarono piccoli pennelli e coloranti vegetali, con una preponderanza di nero, rosso e blu maya, per annotare i particolari glifi e geroglifici che compongono la scrittura Maya.
Dopo anni di studi, gli esperti sono stati in grado di determinare che la datazione più probabile per la stesura di questo codice sia non più tardi del 1345 e l’area più plausibile quella nelle vicinanze della città mesoamericana di Chichen Itza, vista la somiglianza tra lo stile dei glifi e le decorazioni delle ceramiche tipiche della zona.
Per quanto riguarda il contenuto del Codice di Dresda, invece, sono certamente presenti tabelle astronomiche estremamente dettagliate; una sorta di programmazione dei rituali religiosi; riferimenti e descrizioni delle traduzioni e dei rituali del nuovo anno nella religione Maya; tabelle che tracciano i movimenti della Luna e altre specifiche del pianeta Venere. Si crede, tuttavia, che si tratti della copia di un manoscritto più antico.
Il codice fu, inoltre, indispensabile nel decifrare alcuni dei geroglifici che compongono il sistema di scrittura Maya, soprattutto per quanto riguarda i numeri e la denominazione dei giorni.