Quando ho finito di leggere H. Come Hitler vedeva i suoi tedeschi, scritto da Johann Lerchenwald, tradotto da Lodovica San Guedoro e pubblicato in Italia da Jouvence, mi sono chiesta perché scrivere un libro così controverso? Così facilmente in bilico? Un libro su un argomento a cui, forse, altri autori hanno già messo la parola fine su quello che si poteva dire in merito?
In questi giorni, questa frase di Umberto Eco mi balena nella mente, e sembra così attuale e adatta anche a questa pubblicazione: «ci vuole sempre qualcuno da odiare per sentirsi giustificati nella propria miseria.»
Lo stile di H. Come Hitler vedeva i suoi tedeschi
È stato difficile leggere questo libro, ma non per com’è scritto, anzi. Lo stile di Johann Lerchenwald è sublime e mescola diversi mazzi di carte: il romanzo storico, il saggio psicologico e un’amara ironia che spesso sembra sottolineare i concetti più importanti. Scorre, fiume in piena e ruscello a seconda dei capitoli. Capitoli brevi, cadenzati con lungimiranza. Scrive in terza persona, ma una terza persona «iper-autobiografica e autoapologetica». Ed è questa la chiave di tutto, come sottolinea lo storico Franco Cardini nella prefazione.
Un libro che ti obbliga a pensare
Adolf viene raccontato nella sua debole umanità: vittima della violenza paterna e dell’incondizionato amore di sua madre, giovane artista mancato che vendeva acquarelli per mantenersi, soldato volontario in Germania. Non c’è nulla qui della figura di super-uomo che la propaganda aveva creato. C’è fragilità, c’è frustrazione, c’è volontà di farla finita e auto convincimento. C’è sprezzo e stupore per chi l’ha seguito. C’è lucida follia e consapevolezza. C’è assuefazione al potere e dipendenza da esso come da una droga e, si sa, una dose dopo un po’ non basta più. Ma sopra ogni cosa, a mio avviso, c’è molta, molta contraddizione interiore.
E i tedeschi, invece? Com’erano ai suoi occhi?
«Quello su cui poteva contare lui era solo la combinazione dell’infinito amore dei Tedeschi per l’ordine e la coscienziosità, del loro senso del dovere e dell’obbedienza, della loro sprovvedutezza e stoltezza con la sua personale capacità di capire a fondo quella gente disposta ad ascoltare le sue favole e di far leva sia sulle buone sia sulle cattive qualità umane per raggiungere i propri scopi»
«E poiché come Tedeschi erano nel loro intimo ingenui e romantici, persino quando si trattava di picchiatori o criminali, lo zelo che metteva nella creazione di un movimento per la salvezza della patria doveva loro apparire per forza ammirevole.»
«Ma la vera forza trainante, fino all’amara conclusione, erano stati quegli obbedienti creduloni dei Tedeschi.»
A un certo punto diventeranno i suoi Tedeschi, ma il concetto di fondo non cambierà. Quello che succede, però, sarà l’insorgere in lui di un sentimento quasi paterno per loro, di preoccupazione nel caso di sconfitta. «Li vedeva maledetti e marchiati agli occhi del mondo intero, per i secoli dei secoli.» Un sentimento che, forse, non era previsto.
In conclusione: non ho trovato una risposta unica e certa alle domande iniziali ma penso che leggere questo libro sia importante, soprattutto in questo momento storico in cui l’odio serpeggia nella nostra società. Perché leggere H. Come Hitler vedeva i suoi tedeschi ci permette di fermarci e riflettere, di abbandonare il ‘facile’. Ci offre un punto di vista diverso, anche sul presente. Un’occasione che, forse, ad alcuni di noi ora manca.
E, a questo proposito, vi consiglio anche di guardare il film Jojo Rabbit.
Johann Lerchenwald
Johann Lerchenwald è uno scrittore e traduttore letterario di romanzi e saggi. Di madre austriaca e padre tedesco, ha vissuto a lungo in Italia. Tra i suoi libri ricordiamo: Diario di un cameriere ovvero usi e costumi dei Germani (2009), Vent’anni prima (2012), Elogio della sincerità (2016).