Bellezza interiore di Irene Pepe
Caro iCrewer terminiamo questi racconti con Irene Pepe e Bellezza interiore uno dei racconti presenti nella raccolta Quando il fine non giustifica i mezzi. In questi giorni, in cui ognuno sta reinventando la propria quotidianità, una storia per riflettere su ciò che siamo.
Questo racconto vi farà rimanere col fiato sospeso fino alla fine. Non indugio oltre, ti auguro buona lettura!
Bellezza interiore
>>> SECONDA PARTE<<<
I maiali si avventarono sulla carne, le loro zanne affondavano nella pelle e Dante poteva sentire scricchiolare le ossa sotto i loro morsi. Non stavano mangiando, stavano divorando, senza lasciare traccia, qualsiasi cosa si trovassero davanti. Nei brevi momenti in cui alzavano il muso per avventarsi sul prossimo pezzo di carne, Dante riusciva a vedere i loro grugni sporchi di sangue e le loro zanne che brillavano rossastre. Lanciò l’ultimo pezzo di carne e un brivido gli risalì lungo la schiena nel sentire le grida animalesche, ma allo stesso tempo così umane, dei maiali. Rimase ad osservarli assorto, con le braccia incrociate. Solo dopo un po’ si accorse che non era rimasto più niente, non un osso, non un solo residuo di carne. I maiali avevano fatto un ottimo lavoro, come sempre.
Si allontanò dal recinto e rientrò in casa. Si lavò accuratamente le mani e le disinfettò, si dette una rapida occhiata allo specchio e, rassicurato dall’immagine perfetta che vedeva riflessa di fronte a sé, si preparò a uscire. Lo colpì il silenzio della casa e si ricordò di spegnere lo stereo. Tutto era in ordine, poteva andare. Uscì di casa, salì sulla moto e si diresse a tutta velocità verso il teatro.
È risaputo che i melomani preferiscono i posti in piccionaia, perché il suono va verso l’alto e la qualità della musica è migliore. Dante non avrebbe tollerato né la scomodità dei posti, né la promiscuità della piccionaia; in più voleva vedere bene cantanti e scenografia, perciò aveva raggiunto un compromesso: un palco di secondo ordine centrale, dal quale vedevano perfettamente palcoscenico e platea.
Quella sera, al teatro Rossini, era in cartellone il Don Giovanni di Mozart, diretto dal Maestro Enrico Nuti. Don Giovanni: Ruggiero Ridolfi, Leporello: Andrea Canali, Donna Anna: Isabella Caracciolo, Donna Elvira: Stefania Biaggi, Don Ottavio: Marco Orsini, Zerlina: Francesca Ceccarelli. Non un cast di primissimo piano, ma molto più che dignitoso.
Mentre aspettava il gong che segna l’inizio del primo atto, Dante curiosava fra il pubblico della platea, che stava arrivando alla spicciolata. Appena la vide entrare non riuscì più a toglierle gli occhi di dosso. Aveva lunghi capelli biondi, mossi, che le ricadevano con una grazia innaturale sulla schiena. Era vestita in modo semplice: indossava dei jeans scuri e un maglioncino blu, ma da quella distanza Dante non riusciva a capire di che marca fossero. Non ne era sicuro, ma non gli sembravano vestiti particolarmente costosi. Unica nota stonata in quel suo abbigliamento così sobrio era il suo cappotto, lungo e di un forte rosso acceso. Si intonava con il suo rossetto, notò. La donna sedette ai primi posti del secondo gruppo di poltroncine. Da ragazzo, assieme a Guido, quando erano alla messa, fissavano la nuca di quelli che gli erano davanti per vedere se fosse vero che si sarebbero voltati. Non ricordava dove avesse sentito questa sciocchezza, ma era il loro passatempo durante le funzioni sacre, da adolescenti. Senza il minimo senso di razionalità, cominciò a fissare la nuca della ragazza per farla voltare. Incredibilmente, dopo un paio di minuti, la ragazza si voltò e alzò lo sguardo verso il palchetto di Dante. I loro occhi si incrociarono per un lungo istante.
Poi suonò il gong, le luci si abbassarono, il Maestro Nuti entrò mentre l’orchestra si alzava.
Applausi. Silenzio. Inizio dell’ouverture.
Dante fu catturato dalla musica per le prime quattro scene. Scena quinta, entra Donn’Elvira, aria Ah! chi mi dice mai. A Dante, per chissà quale associazione di idee, tornò in mente la bella spettatrice della platea e le gettò un’occhiata fugace. Alla fine della quinta scena, quando Leporello comincia a sciorinare l’elenco delle conquiste del suo padrone, con la celebre aria Madamina, il catalogo è questo, Dante abbassò lo sguardo dal palco alla platea e cominciò a fissare la bella donna che, più o meno quando Leporello stava cantando “Nella bionda egli ha l’usanza di lodar la gentilezza” si voltò fugacemente verso il palco di Dante. Buio in sala; i loro sguardi non s’incrociarono.
Anche sul finale della scena nona, sull’aria del duetto Don Giovanni Zerlina, Là ci darem la mano gli venne l’impulso di guardare la platea, ma era troppo allusivo e lui era un uomo di classe. Resistette alla tentazione.
Finale del primo atto. Ballo in maschera, Don Giovanni viene smascherato: “Trema, trema, scellerato” e, mentre l’atto si concludeva, Dante si mise a canticchiare a mezza voce con Don Giovanni: “Se cadesse ancora il mondo nulla mai temer mi fa!”
Fine primo atto, applausi scroscianti, sipario. Luci.
Dante guardò immediatamente in basso per vedere se la ragazza si alzasse dalla poltroncina per andare nel foyer. Si alzò e lui, a sua volta, scese rapidamente le scale.
Quando arrivò al piano terra lei stava pochi metri più avanti, in direzione del bar. A un certo punto si voltò, come se stesse cercando qualcuno con lo sguardo. Dante le sorrise. Arrivarono alla cassa quasi contemporaneamente.
«Mi perdoni se mi rivolgo a lei senza conoscerla, ma deve essere nuova del posto; mi permetta di offrirle qualcosa da bere. Lo consideri una sorta di benvenuto».
«La ringrazio. Effettivamente sono in città da poche settimane. Non conosco ancora nessuno e per me è un sollievo, finalmente, poter parlare con qualcuno. Lei, invece, mi sembra un habitué del teatro».
«Sì, in effetti ho un abbonamento alla stagione lirica, poi stasera non avrei mancato in nessun modo all’appuntamento. Stimo molto il Maestro Nuti. Lo trovo…»
«Filologico?»
«Sì, filologico. In pochi sanno restituire le atmosfere mozartiane come lui».
«È vero, spesso lo dirigono come se fosse stato un romantico, il Maestro lo restituisce al suo settecento».
«Passerò un attimo dal camerino del Maestro, dopo il concerto, per salutarlo; se le fa piacere glielo faccio conoscere».
«Lei conosce il Maestro Nuti?»
«Sì, l’ho operato lo scorso anno, un intervento di poco conto. Siamo rimasti in contatto. Questa sera gli ho promesso di passare a salutarlo, dopo il concerto».
«Mi renderebbe molto felice se potesse farmelo conoscere». La ragazza sorrise, con gli occhi che luccicavano per l’emozione, e Dante ebbe modo di notare la sua perfetta dentatura.
«Allora ci vediamo dopo il concerto all’ingresso dei camerini».
Per tutto il secondo atto Dante si concentrò sulla musica. La ragazza era bellissima, simpatica, raffinata, chissà, forse anche bella dentro. Avrebbe dovuto conoscerla meglio. Tanto, alla fine dello spettacolo, l’avrebbe rivista, poi il resto sarebbe andato da sé: era da poco in città, era sola. Ormai la considerava già sua. Quindi tutta la sua attenzione poteva riservarla al dramma giocoso di Mozart – Da Ponte.
Si arrivò alla scena dodicesima, la scena del cimitero ove riposava il Commendatore, padre di Donn’Anna, ucciso da Don Giovanni nella prima scena.
La sua statua, lavorata di fresco, se ne stava immobile fra gli altri antichi monumenti funebri.
Il battibecco di Don Giovanni e Leporello fu interrotto da una voce di basso profondo: “Di rider finirai pria dell’aurora”.
Arrivato a questo punto, non c’era volta che Dante non rabbrividisse, come si trovasse anch’egli, di notte, in un cimitero popolato di spettri. Non per timore superstizioso. E non c’era volta che la sua mente non tornasse alla figura di suo padre. Il grande chirurgo, che lo aveva obbligato a seguire le sue orme. Alto, imponente, con la corta barba dei filosofi greci, come di solito veniva raffigurato il Commendatore. Sempre combattuto fra l’ammirazione per il grand’uomo e l’odio per quel padre che l’aveva schiacciato con la sua personalità. Quando morì, assieme al sincero dolore, non riuscì a reprimere un sentimento di sollievo che gli scatenò un senso di colpa che trascinò a lungo. Quell’uomo dal quale aveva ereditato la voce profonda e la mano ferma e anche, ammettiamolo pure, la cattedra alla facoltà di medicina, per lui era legato indissolubilmente alla figura del Commendatore. Per questo sentire la voce dello spettro lo faceva rabbrividire; era come se suo padre fosse tornato dalla tomba per continuare a tormentarlo. E per quello lo sberleffo di Don Giovanni che invita la statua a cena era così liberatorio.
Si arrivò alla scena diciannovesima, la più drammatica di tutte, quando il Commendatore si reca alla mensa di Don Giovanni e lo trascina all’inferno con sé. Dante era palleggiato fra il terrore che provava per il Padre-Commendatore e il rifiuto liberatorio di pentirsi di Don Giovanni. Non c’era nessuno nel palchetto, assieme a lui, altrimenti lo avrebbero visto stringere in maniera spasmodica il velluto della balaustra, tanto che sarebbero rimaste a lungo le impronte delle dita.
“Questo è il fin di chi fa mal
e de’ perfidi la morte
alla vita è sempre ugual!”
Applausi. Il sipario si chiuse e si riaprì per la consueta passerella dei cantanti. Il Maestro Nuti fu trascinato sul palco per ricevere un’autentica ovazione. A fra poco, pensò Dante. Sia che si riferisse al Maestro o alla bella spettatrice.
Il Maestro lo accolse con un gran sorriso e gli allungò la mano: «Dottore, è un piacere rivederla. Questa splendida signora è sua moglie?»
«Maestro, i miei complimenti, un’interpretazione perfetta. La signorina, che ho conosciuto giusto stasera nel foyer, concorda con me che lei è un perfetto esegeta di Mozart».
«Ho dedicato anni di studio ai manoscritti per riuscire a interpretare la musica come, ho buone ragioni di credere, l’aveva pensata Mozart. Anch’io sono soddisfatto del risultato».
Si trattennero piacevolmente per una ventina di minuti e la ragazza ebbe modo di mostrare la sua brillante competenza musicale. Anche il Maestro ne era chiaramente conquistato.
Si salutarono calorosamente: «Spero di rivederla presto, dottore, le devo molto, lei mi ha rimesso a nuovo».
Quando furono usciti, Dante non si perse in discorsi e andò subito al dunque. Con la sua voce baritonale pescò una battuta della dodicesima scena e cantò: «Parlate se potete: verrete a cena?»
La ragazza stette al gioco e, cantando col suo tono più basso, dette la stessa risposta del Commendatore: «sì!»
Quel giorno, a lavorare, Dante non aveva fatto altro che pensare alla cena che lo attendeva quella sera. Era sempre troppo nervoso prima di un appuntamento, spaventato di andare incontro all’ennesima delusione. Per cercare di calmarsi aveva programmato mentalmente la serata nei minimi dettagli. Sapeva come vestirsi, cosa cucinare, come apparecchiare. Non era ancora sicuro sul tipo di musica da scegliere. Mentre si lavava i capelli giunse alla conclusione che il jazz sarebbe stata una colonna sonora perfetta per un appuntamento del genere. Meglio qualcosa di orecchiabile, ma di gran classe: Stan Getz era la scelta migliore.
Uscì dalla doccia sovrappensiero e, davanti allo specchio, cominciò la solita routine post doccia. Si dette qualche goccia di profumo in più, in questi casi poteva permettersi di esagerare. Arrivato in camera rimase sulla soglia a osservare i vestiti per quella sera che aveva steso sul letto con maniacale precisione: maglione grigio con scollo a v di cashmere e seta di Burberry, camicia azzurra di cotone e cashmere di Ermenegildo Zegna, Levis chiari, Dr. Martens nere basse. Rimase più che soddisfatto e si vestì velocemente. Controllò l’ora: le sei e venti. Aveva ancora circa due ore per preparare tutto il resto.
Dalla cucina poteva già sentire il profumo del vitello che rosolava. All’odore della carne si accompagnava quello del burro e della salvia. Dante riusciva anche a percepire l’odore più aspro del vino con cui aveva marinato le fettine di carne. Entrò in cucina e fu contento di vedere che la carne si stava dorando alla perfezione. Aggiunse i cipollotti, che aveva lavato accuratamente, e un pizzico di sale. Mentre aspettava che fosse pronta, cominciò a preparare l’antipasto: friselle con paté di carciofi, prosciutto di Praga e pomodorini. Un antipasto semplice, ma che faceva la sua figura. Ammollò le friselle con acqua tiepida e vi spalmò sopra uno strato abbondante di paté di carciofi e un po’ di pepe. Resistette alla tentazione di assaggiarlo. Prese poi il prosciutto e con grande attenzione cominciò ad arrotolarlo, dandogli la forma di tante piccole rose. Ammirò il suo lavoro e, soddisfatto, mise le rose al centro delle friselle. Tagliò in quattro i pomodorini e li posizionò ai lati di ogni crostino. Perfetto. La carne, intanto, era pronta e Dante cominciò a confezionare gli involtini con speck e formaggio Asiago.
Adesso mancava soltanto il dolce. Aveva scelto di fare la crème brûlée, una ricetta ambiziosa, ma non troppo difficile per un cuoco esperto come lui. Il segreto stava nel saper montare bene la crema, che doveva essere gonfia e spumosa, e nell’aggiunta del suo ingrediente segreto: un cucchiaio di rum. La crema si stava addensando alla perfezione e il profumo era divino. Divisa in due contenitori, la coprì con della pellicola trasparente e mise in frigo. Dopo avrebbe caramellato lo zucchero.
Mentre Lullaby dei Cure suonava dallo stereo, Dante cominciò ad apparecchiare la tavola. Stese una lunga tovaglia bianca di lino lavorata a mano e scelse il suo servizio di piatti migliore, quello che si tramandavano ormai da generazioni. Preziosi piatti di porcellana Wedgwood color carta da zucchero con piccole decorazioni dorate. Semplici e raffinati. Per finire, prese le posate d’argento che tirava fuori per le grandi occasioni. Tornò in cucina e stappò un Sassicaia del 2016 e lo vuotò nel decanter; istintivamente, senza alcun motivo, controllò anche il prosecco che aveva già messo in frigorifero dalla mattina.
La mattina molto per tempo, come sta scritto nel vangelo di Giovanni, il telefono squillò sul comodino di don Guido. Il prete si svegliò di soprassalto e pensò subito a un’estrema unzione. Invece vide sul display del cellulare il numero del suo amico. La cosa lo fece preoccupare ancora di più. Cosa poteva essere successo perché lo chiamasse a quell’ora? Rispose con tono apprensivo: «Dante, cosa è successo?»
«Una cosa bellissima, l’ho trovata!». Don Guido non riuscì a collegare la risposta dell’amico a qualcosa di concreto. Cosa diavolo avrà voluto dire? Cosa aveva trovato? «Cosa?» si limitò a dire.
«Lei, la donna della mia vita. Ho peccato di nuovo, ma questa volta l’ho trovata!»
«Ego te absolvo – bofonchiò, assonnato – E tu mi svegli alle…» guardò l’ora «sei meno un quarto per dirmi questo? Non potevi aspettare le otto?».
Dante sembrò non sentire nemmeno le proteste dell’amico. «La devi conoscere. Vieni immediatamente!».
Il prete non si mise a discutere. Conosceva bene l’amico: non c’era modo di dissuadere Dante, quando si metteva in testa una cosa. Dannato maniaco, pensò; poi, rivolto all’amico: «D’accordo, dammi il tempo di svegliarmi completamente. E voi due ricomponetevi, ricordate che sono un prete».Don Guido prese l’auto, sbadigliando. Era seccato di essersi svegliato quando era ancora buio e di doversi sciroppare i chilometri che lo separavano dall’eremo di Dante, ma era anche contento per l’amico e pensava, sollevato, che non si sarebbe più macerato con le sue ossessioni. Ammesso che fosse la volta buona per davvero, perché con Dante non si sapeva mai. A quell’ora non c’era traffico e arrivò presto a destinazione. Suonò. Nessuna risposta. Non importa. Conosceva la strada. La porta era aperta ed entrò nell’ampio living.
Nessuno. «Dante?» chiamò.
«Vieni» rispose una voce dalla camera da letto.
Non staranno mica… pensò, ma era improbabile; l’amico non l’avrebbe invitato a entrare in camera.
Entrò.
Stesa sul letto c’era una donna completamente nuda. I capelli biondi sciolti le incorniciavano il volto e la luce che proveniva dalla finestra li faceva risplendere, donandole un’aria sacra. Sul collo, come a farle da collana, c’erano due spesse strisce violacee. Le braccia ricadevano inermi lungo i fianchi, pallide. Dal seno partiva un lungo squarcio rosso che si allungava fino al basso ventre. La gabbia toracica era stata aperta in due e le ossa sporgevano leggermente. Il cuore, dove spiccavano grosse arterie scure, era immobile, lucido e gonfio. I polmoni erano stati sollevati e poggiavano adesso sulle costole. Le estremità ricadevano molli sui fianchi della ragazza. Sembravano ali. L’intestino, di un nauseante colore marrone, era stato srotolato in tutta la sua lunghezza e Don Guido si accorse con orrore che il colon sfiorava il pavimento. Quel particolare grottesco sembrò risvegliarlo dallo shock e cercò disperatamente di reprimere un conato di vomito. Si voltò, gli occhi sbarrati, il volto deformato da un’espressione di puro terrore, le mani serrate sullo stomaco. Dante lo guardava, con uno sguardo estatico e un sorriso sulle labbra. Nei suoi occhi non vi era alcuna follia, soltanto serenità. «Che ti dicevo Guido? La sua bellezza mi ha sopraffatto. È bella anche dentro».
Don Guido tornava a casa sconvolto. Il suo più caro amico era un pazzo assassino. Come aveva potuto non accorgersi di niente? E, cosa ancor più tragica, come fermarlo? Era vincolato o no al segreto della confessione? Quella sciocchezza che gli era sfuggita di bocca poche sere prima, sul fatto che lo avrebbe assolto anche se avesse commesso lo stesso peccato, come se lo avesse confessato, aveva un valore dinanzi a Dio? “In verità vi dico: tutto quello che legherete sopra la terra sarà legato anche in cielo e tutto quello che scioglierete sopra la terra sarà sciolto anche in cielo” ha detto Gesù stesso, pensò, non un qualsiasi dottore della Chiesa. Dio mio, cosa ho fatto? Come posso continuare a fingere di non sapere? Come posso svincolarmi dal segreto della confessione? Come potrò fermare quell’assassino?
Pensò di chiedere aiuto al vescovo, ma sapeva quello che gli avrebbe detto. Era stato leggero e imprudente, ma violare il segreto della confessione era un sacrilegio.
Arrivò a sperare di uscire di strada e morire sul colpo, aggiungendo peccato al peccato ma, infine, arrivò a casa. Aprì la porta della chiesa e si mise a pregare.
IL PAESE, 15 novembre 2020
SCOPERTO IL SERIAL KILLER FANTASMA
Ieri, alle 19:30 i carabinieri hanno tratto in arresto Dante Andreani, 49 anni, noto medico chirurgo e docente universitario. L’Andreani teneva in camera una ragazza letteralmente aperta in due. Quando i carabinieri sono entrati l’uomo la stava contemplando, come se fosse ipnotizzato.
Questa è la dodicesima ragazza scomparsa negli ultimi due anni. Delle altre sventurate non è stata mai trovata traccia, perciò si era parlato di “serial killer fantasma”.
I carabinieri sono stati avvisati con una lettera anonima, infilata manualmente sotto la porta della stazione dell’Arma di Poggio Lupo, la località più prossima alla casa del killer.
Si ignora come l’Andreani sia riuscito a far scomparire completamente i corpi delle altre ragazze; una ipotesi è che le abbia fatte divorare dai cinque maiali che aveva nella stalla. (segue a p.10)
>>> FINE<<<