Alle 8.15 del mattino del 6 agosto 1945 veniva sganciata sulla città giapponese di Hiroshima la prima boma atomica. Il 9 agosto, alle 11.02, la stessa sorte sarebbe toccata a Nagasaki.
Si tratta di date che, almeno per me, sono diventate estremamente familiari solamente negli ultimi tempi, quando ho approfondito gli studi al riguardo della storia del Giappone. Ed è stato in quel momento che mi sono resa conto di quanto poco effettivamente sapessi di questi fatti (relegati, almeno per quanto mi ricordo, a poco più di un paio di paragrafi del libro di storia).
Il mio vuole essere un piccolo contributo ai numerosi eventi artistici e culturali che ogni anno vengono organizzati in memoria delle vittime dei bombardamenti atomici.
Vorrei iniziare con un disclamer (che spero non sia necessario, ma di recente mi è capitato di trovare molto utili commenti anticipatori di questo genere, e quindi): non sto prendendo le parti di un Paese, piuttosto che un altro. Non sto abbuonando crimini di guerra commessi negli anni del secondo conflitto mondiale o prima, da ogni esercito in causa. Tuttavia, quelli di Hiroshima e di Nagasaki, così come moltissimi altri in quegli anni, sono stati bombardamenti su città a maggioranza di popolazione civile e che quindi, personalmente, faccio rientrare nella categoria della strage.
Le bombe atomiche del ’45: tra i quattro eventi più sconvolgenti del Novecento giapponese
Lo scoppio degli ordigni nucleari su Hiroshima e Nagasaki è uno dei quattro eventi della storia recente giapponese ad aver colpito e ferito così profondamente la società, da aver creato uno spartiacque, un prime e un dopo – gli altri sono il terremoto della pianura del Kanto, nel 1923; la Seconda guerra mondiale e la triplice catastrofe di Fukushima, nel 2011.
Non c’è da stupirsi, quindi, che si sia creato un filone letterario composto da opere prettamente su questo tema. In giapponese, questo genere prende il nome di genbaku bungaku, letteratura della bomba atomica. I testi che vi si possono trovare sono i più vari: testimonianze di sopravvissuti – chiamati hibakusha – sia in forma biografica, sia in romanzi che rivivono la vicenda; saggi scritti molti anni dopo da studiosi degli eventi di Hiroshima; poesie; interviste; ecc.
Tuttavia, non è infrequente che questi scritti siano poco noti, all’estero perché tradotti soltanto in minima parte, in patria perché soggetti a censura durante gli anni dell’occupazione statunitense. Ciò che è certo è che si tratta di opere non paragonabili a nessune altre: trattavano di un fatto all’ora unico nella storia dell’uomo, di una distruzione senza pari e senza nome (per giorni gli abitanti di Hiroshima non hanno saputo che tipo di bomba li avesse colpiti, riferendosi all’esplosione come pikadon – pika per il lampo, don per il frastuono). Di qualcosa così spaventoso e disumano, che il linguaggio correntemente usato nelle opere di letteratura era sentito come estraneo, troppo astratto e lontano, per riuscire effettivamente a descrivere quell’inferno sceso in terra.
A ciò va aggiungersi il diritto degli hibakusha al silenzio, al riserbo, al cercare di tornare a una sorta di normalità, seppur segnati dall’esplosione o malati della malattia atomica (causata dall’esposizione alle radiazioni). E con sopravvissuti, non intendo solamente coloro che risiedevano a Hiroshima o Nagasaki, ma anche tutti i pendolari, gli abitanti di altre città e soldati arruolati in vari reparti lì di stanza, cittadini coreani che si trovavano – più o meno forzatamente – sul suolo giapponese. Insomma, tutte persone che sono tornate a casa nei giorni seguenti all’esplosione e, spesso, non hanno potuto ricevere cure mediche adeguate, visto che gli unici medici specializzati sugli effetti delle radiazioni lavoravano all’ospedale di Hiroshima.
Da Città di cadaveri a Note su Hiroshima: la letteratura della bomba atomica
Prima di tutto, evocare le rovine: sono le opere scritte nell’immediatezza dell’evento, testimonianze realistiche, documentazione diretta di com’erano Hiroshima e Nagasaki negli attimi e nei giorni successivi all’esplosione, messi su carta tra il ’45 e il ’52. Esempi di ciò sono gli scritti di Tamiki Hara e Yoko Ota, come Città di cadaveri.
Vi è poi la prospettiva a distanza: questi autori non sono testimoni diretti, non si trovavano sul luogo il 6 e 9 agosto. Tuttavia, mediante varie tecniche narrative rivivono i fatti, cercando nel contempo di creare un effetto di distanziamento. Io ho letto La pioggia nera di Masuji Ibuse, romanzo in cui si intrecciano il tempo prima della bomba, l’Hiroshima dei momenti dopo l’esplosione, e quella a circa dieci anni di distanza; e Note su Hiroshima, del premio Nobel Kenzaburo Oe, raccolta di saggi composti tra il ’63 e il ’65, in cui l’autore trascrive moltissime testimonianze di hibakusha.
Infine, l’espansione nel tempo e nello spazio: questi scritti adottano una prospettiva più ampia, che va al di là dei confini del Giappone e dei riferimenti allo specifico evento storico. La bomba atomica è soggetto di una visione allargata, cosmopolita, qualcosa che potrebbe accadere in ogni luogo e in ogni tempo. Sono opere di testimoni diretti e non, come Kyoko Hayashi, Minako Oba e Makoto Oda.
Ciò che, però, è davvero importante ricordare, parlando di letteratura della bomba atomica, è che i testi, soprattutto di carattere biografico, potranno raccontare solamente l’Hiroshima e la Nagasaki dell’autore/autrice, non in un’ottica universale. Ogni testimonianza è a sé, ogni individuo può narrare solamente ciò che ha vissuto e nessuno può davvero dare voce alle centinaia di migliaia di morti.